Moni Ovadia: un ebreo in paradiso - Le Cronache
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Moni Ovadia: un ebreo in paradiso

Moni Ovadia: un ebreo in paradiso

Dall’incontro con Federico Sanguineti, lo spettacolo “Il Paradiso con Dante e Beatrice” alla sua ultima opera “Un ebreo contro”, con una riflessione sul nodo politico attuale e una visione, il suo rammarico per non essere riuscito a diventare un suonatore di jazz, la sacralità del teatro, in questa intervista a tutto tondo

di Olga Chieffi

Il suo “piccolo contributo”, per un mondo migliore, da ebreo sulle tracce del profeta Isaia, l’offre in ogni momento, in ogni sua azione, in ogni sua parola Moni Ovadia: “Non ne posso più dei vostri sacrifici, dei vostri incensi, del vostro genuflettervi. Ma rialzate l’oppresso, praticate la giustizia, difendete la causa dell’ orfano e della vedova”. Il 2021 di Moni è stato caratterizzato dalla pubblicazione della sua ultima opera “Un ebreo contro” un’intervista con Livio Pepino per le edizioni Gruppo Abele e da un volumetto che è in uscita “Il Paradiso con Dante e Beatrice” per Tempesta Edizioni, in pratica, i testi dello spettacolo ispirato all’interpretazione dell’ultima cantica della Divina Commedia da parte del filologo Federico Sanguineti. Moni Ovadia è un uomo irriducibile che lotta per creare una società buona, densa di valori che costruiscono il senso delle cose Moni quale quale è il punto comune di “Un ebreo contro” e de’ “Il Paradiso con Dante e Beatrice”? “Il punto d’unione è l’affermazione dell’uguaglianza, del riscatto di quanti siano stati messi sempre da parte, è nel parlare di quello di cui non si parla, è nell’ aspirazione a rendere l’ uomo libero, e nel dire che la libertà non può essere disgiunta dalla responsabilità. La donna, nel Paradiso, nella visione di Sanguineti, il quale ha eliminato dal quel luogo la palude in cui era impelagata appunto la Beatrice, ovvero tutto il pathos allegorico, che l’aveva travisata nei secoli, facendocela riscoprire donna vera, guida dell’uomo, bella e saggia, rende Dante, e con lui tutti noi, uomini liberi. Come vede la questione israeliana, questa continua recrudescenza? La politica di questo governo israeliano è il peggio del peggio. Non ha giustificazioni, è infame e senza pari. Vogliono cacciare i palestinesi da Gerusalemme est, ci provano in tutti i modi e con ogni sorta di trucco, di arbitrio, di manipolazione della legge. E’ una vessazione ininterrotta che ogni tanto fa esplodere la protesta dei Palestinesi, che sono soverchiamente le vittime, perché poi muoiono loro, vengono massacrati loro. La condizione del popolo palestinese è quella del popolo più solo, più abbandonato che ci sia sulla terra perché tutti cedono al ricatto della strumentalizzazione della Shoah. Tutto questo con lo sterminio degli ebrei non c’entra niente, è pura strumentalizzazione. Oggi Israele è uno stato potente, armato, ricco, che ha per alleati i paesi più potenti della terra e che appena fa una piccola protesta tutti gli si prostrano, a partire dalla Germania con i suoi sensi di colpa. Io sono dalla parte dei Palestinesi, cioè dalla parte degli oppressi. Essere ebrei significa stare dalla parte dei più deboli. La pace si può fare solo tra eguali: finché gli israeliani non si ritireranno dalle terre occupate, finché cioè non verrà ristabilita la legalità internazionale, non si potrà iniziare nessun vero negoziato di pace”. Come si ritrova l’empatia, l’umanità, attraverso le arti? “La creazione artistica è, indubbiamente, una forma di linguaggio autonomo che interpreta e che conosce il mondo, si fa specchio del mondo o, comunque, di un universo, di un cosmo in cui l’artista è l’artefice di una visione originale che lo avvicina allo spettatore nel momento del godimento del bello, nella fruizione dell’opera e così avviene il risveglio, tensione intellettuale ed etica. Sono le arti il vero simbolo e senso dell’umanità, un linguaggio in cui tutti siamo alla ricerca della bellezza. Non possiamo dire che un’opera, un artista sia inferiore ad un altro. E’ il linguaggio estetico che non accetta mediazioni di alcun tipo e che, sempre, esprime il vissuto, il sentito, il pensato in modo unico, irripetibile, originale. Ciò che importa è che l’arte attraverso il suo linguaggio desti le coscienze, ci scuota dal torpore in cui le mode ed il contesto socio/politico ci appiattiscono, in una parola, l’importante è che l’arte ci ri-conduca alla persona che noi siamo, alla nostra integrità gnoseologica e pratica”. La musica ha un significato speciale per l’ebreo, è la spia rivelatrice dello stesso pensiero ebraico. Cos’è per lei? “La musica è la lingua universale, è il simbolo che l’arte tutta parla una sola lingua, che è umana. Io ho collaborato con l’etnomusicologo Roberto Leydi, ho ascoltato di tutto, dalla musica del Tibet, sino a quella africana e mi incanto dove trovo la bellezza. Bisogna rispettare ogni tradizione musicale, ogni suono per quello che è. Ad esempio, Matteo Salvini, è sovranista, ma anche un discreto tastierista. Sai che genere suona? Il Soul, non le canzoni dell’alta bergamasca, che il suo credo politico gli intimerebbe di eseguire. Il mio più grande rammarico è quello di non essere riuscito a diventare un suonatore di jazz. Ho studiato la chitarra classica, suonacchio la tromba, ma uno il jazz lo deve avere dentro. Ho incontrato tanti artisti, “faccio crepare d’invidia” veramente tanta gente. Sono stato a tavola con Duke Ellington (e qua a crepare sono io! n.d.r.) ho ascoltato live il Mingus ed Eric Dolpy, sono stato amico di Chet Baker, di Anthony Braxton, amo Charlie Parker, ma niente da fare, non sono riuscito a suonare il jazz”. E il teatro? “E il teatro è il sacrario della centralità dell’essere umano. In teatro tutti gli esseri umani sono uguali, anche il malvagio. ll teatro insegna le responsabilità, la relazione con l’altro, la socialità, la gestione delle emozioni: per questo dovrebbe costituire una materia obbligatoria in tutte le scuole di ogni ordine e grado. Il teatro inoltre, grazie alla pietas della finzione, sublimando la tragicità del reale impedisce che l’uomo rimanga pietrificato dall’orrore della Medusa, consentendogli di avvicinarsi alla verità, umana. Mi viene in mente il verso del sonetto romanesco recitato da Gigi Proietti: “Viva er teatro, dove tutto è finto ma niente c’è de farzo”.