Giancarlo Gianterio e l’editoriale di Antonio Ghirelli
La storia di un ragazzino che un giorno d’ottobre del 1956 varcando la soglia di un portone si lasciava alle spalle le tenebre e salendo le scale si affacciò su un piazzale chiamato “Villetta” e da lì vide la luce.
Di Giancarlo Gianterio
L’appuntamento era fissato per le 8.30. Il prete della mia parrocchia era riuscito a farmi “chiudere” in collegio. Ed alle 8.30 precise di quella mattina dell’ottobre 1956 varcai il portone del Serraglio. Un bacio e un ciao, mia madre che si allontana ed io che imbocco le scale che mi condurranno in terza camerata. Non ricordo i vestiti che indossavo, ricordo però che dopo dieci minuti non esistevano più. Ne avevo di nuovi. I miei abiti erano uguali a quelli di tutti gli altri ragazzi. Finalmente! Sì, perchè fino al giorno prima i miei vestiti, se proprio vogliamo chiamarli così, non erano uguali a quelli dei miei amici. I miei erano rotti, le scarpe, quando le avevo, erano bucate, non ricordo se indossavo i calzini e nemmeno le mutande. Varcando quel portone lasciavo la “libertà”, ma trovavo la dignità. Non ne faccio sicuramente una colpa ai miei genitori. Venivamo dalla guerra ed erano anni terribili. Una situazione forse, anzi senza forse, almeno per me, peggio di quella descritta da coloro che nello stesso periodo erano ospiti dell’Orfanotrofio. La fame era a disposizione di tutti o quasi, ma per me ce n’era di più ed io, varcando quel portone, abbandonavo anche quella. Dopo tre anni ritornavo a scuola. Al primo banco, vista la mia statura. Al mio fianco Antonio Boffardi, un futuro fratello per me, da quel giorno diventammo culo e camicia. Terza camerata. Istitutore Roberto. Capisquadra che si sentivano investiti di un’autorità straordinaria. Attenti, riposo, passo, cadenza, avanti march. Pulizia dei cessi per punizione o turnazione. Ed io, per evitarlo raddrizzavo le spalliere dei letti. Tre anni di avviamento industriale, quindi, seconda camerata e secondo corso compositori-linotipisti. Maestro Armando Fagiano. Studi svolti con buon profitto, tanto da meritarmi una proposta di lavoro dal titolare della tipografia Di Giacomo, che faceva parte della commissione giudicante agli esami. Non accettai. Era trascorsa solo una settimana dopo gli esami nel giugno del 1962, quando mia madre mi preparò la valigia di cartone e insieme ad un biglietto ferroviario destinazione Roma, mi mise in tasca 20 mila lire e mi augurò buona fortuna. Insieme all’amico Giovanni Sessa partimmo all’avventura. Alla stazione Termini ad attenderci c’era lo zio e, il suo aiuto, fu fondamentale almeno all’inizio. L’unico inconveniente era che quasi tutte le sere eravamo tenuti a fargli compagnia a tavola per gustare la pesca col vino. Lui abitava in via Tasso negli stessi palazzi adibiti dalle SS a prigioni e che avevano ospitato i reclusi Sandro Pertini e Giovanni Saragat. Il primo posto di lavoro fu una linotypia in via dei Gracchi, dal sor Mario, che anni dopo rincontrai e fu ospite a casa mia. 350 lire l’ora. I primi soldi contati e ricontati sul letto in una stanza che di letti ne ospitava sei. 6.000 lire al mese l’affitto del letto. Qualche volta mancava anche il lavoro e fu necessario cercare alternative. Fu così che, leggendo le offerte di lavoro pubblicate sul Messaggero, notai che esisteva una famiglia disposta ad offrire vitto ed alloggio in cambio di faccende serali. In poche parole si trattava di lavare i piatti. Qualcuno in Istituto mi aveva insegnato che tutti i lavori erano nobili purché onesti. Mi offrii e fu la svolta della mia vita. In quella famiglia conobbi una signora, la signora Anna, che aveva come figlio uno dei più bravi giornalisti sportivi italiani. Il suo nome era Maurizio Berenson, un grande giornalista ma, soprattutto un uomo straordinario. La mia storia colpì la signora Anna che mise in opera tutte le qualità di mamma, per convincere suo figlio a portarmi nello stabilimento tipografico dove si stampava il giornale su cui scriveva. Lui era dubbioso. Non lo convincevano la mia età, 21 anni, e la scarsissima esperienza lavorativa. Alla fine però la signora lo convinse o lo costrinse. E nel mese di giugno, esattamente un anno dopo l’uscita dall’Istituto, fui presentato al direttore della tipografia dove si stampava il Giornale d’Italia. Devo essere sincero e confessare che i dubbi di Maurizio Berenson erano abbastanza fondati. La scuola ti insegna tanto teoricamente, ma è altrettanto importante l’esperienza lavorativa e a me mancava. L’impatto con l’ambiente fu per me devastante. Solo che avevo incontrato un altro angelo, il Direttore dello stabilimento tipografico, Armando Retrosi, che non so nemmeno io il motivo, mi perdonò tutto, mi disse di lavorare tranquillo. Forse, Maurizio ebbe a pentirsene per aver fatto da garante, ma io non ne seppi nulla. Col trascorrere dei giorni, però, anche io acquistavo sicurezza e diciamo che cominciavo a cavarmela abbastanza bene. Tanto che verso la metà del mese di agosto del 1963 fui convocato in redazione. Mi cercava il dottor Maurizio. Voleva dirmi bravo e ringraziarmi. Un uomo straordinario, appunto. Lui che ringraziava me per avergli “fatto fare una bella figura”. Lo stesso Armando Retrosi, che nel periodo estivo sostituiva il Proto di tipografia, il sabato mi permetteva il cambio d’orario facendomi lavorare di mattina. Appena iniziavo mi dava il lavoro di otto ore. Dopo tre ore avevo finito e lui mi diceva di andare a casa. A Salerno ritornavo il sabato e ripartivo la domenica. La paga per quell’epoca era straordinariamente alta: 150.000 mila lire mensili. Due anni dopo chiude lo stabilimento del Giornale d’Italia e c’è l’inaugurazione della Stec, uno degli stabilimenti tipografici più moderni dell’epoca. Il buon Retrosi viene declassato da Direttore a Proto. Non c’incontravamo mai, lui la mattina ed io la notte (per modo di dire: 18-24). La domenica qualche volta capitava di incontrarci. Una in particolare. Sul numero del lunedì del Corriere dello Sport c’era immancabilmente il commento al campionato di calcio del direttore Antonio Ghirelli. Si trattava di circa 500 righe di giornale. Il tempo impiegato normalmente era di tre ore. La produzione oraria era stabilita da contratto in 150 righe orarie. Retrosi decise che quella domenica toccava a me comporlo. Dopo 45 minuti era finito e al riscontro dei correttori di bozze non furono trovati “refusi”. A quel punto vidi un uomo felice. Gridare in tipografia quasi da esaltato: “hai due palle così”. Gli sarà tornato alla mente il bruttissimo inizio e si era sentito orgoglioso di avermi aiutato. Nel 1967 il matrimonio, due figli, cinque nipoti. Nel 1980 divento Proto e dal 1994 mi godo la pensione curando il mio orto e gustando l’olio delle mie olive della Sabina. Questa la storia di un ragazzino che un giorno d’ottobre del 1956 varcando la soglia di un portone si lasciava alle spalle le tenebre e salendo le scale si affacciò su un piazzale chiamato “Villetta” e da lì vide la luce.