Per gli amanti della statistica, l’86esima edizione degli Academy Awards è quella dell’autoscatto di Ellen DeGeneres con Brad Pitt e compagnia hollywoodiana, che ha battuto ogni record di retweet (2 milioni in poco più di due ore). Di là degli album di famiglia dal Dolby Theatre di Los Angeles, rilegati per i social network, e dell’immancabile conteggio di statuette, già eredità degli almanacchi, la notte degli Oscar fa luce sull’intera annata cinematografica. I sette Oscar a Gravity di Alfonso Cuarón, intanto, fotografano una sana voglia di spettacoli non sterili. Premi tecnici, per lo più, ma al cineasta messicano, insignito per la miglior regia, resta più di un abile pilota di una “macchina della meraviglia”: i riconoscimenti a Gravity superano il plauso all’effetto, premiando piuttosto la capacità di rinnovare la frontiera dello sguardo, spinto in un set astrale che riformula il concetto stesso di ripresa. Come a dire: quando il mestiere si sposa alla sperimentazione, il prodotto va in orbita, eccome, nel riconoscimento della critica, così come in platea. Altrove, invece, scintilla solo il mestiere: American Hustle di David O. Russell (10 nomination) resta a digiuno, profilandosi come il perfetto esempio di artigianato impeccabile, in cui funziona tutto (cast, soundtrack, script), ma non abbastanza da superare l’esecuzione scolastica e gradevole: più applausi che allori. Che a volte la qualità sia anche una questione d’ambizione, lo attesta 12 anni schiavo di Steve McQueen: solo tre statuette, ma con quella pesantissima di miglior film (tributati anche Lupita Nyong’o, attrice non protagonista, e John Ridley, sceneggiatura non originale). A fronte del trionfo, nella scorsa edizione, della retorica a stelle e strisce del Lincoln di Spielberg, quello di McQueen è un autoscatto sull’America ben più ad effetto: una denuncia “carnale” sui retroscena dello schiavismo negli Stati Uniti dell’800, una grande bruttezza necessaria, ostentata attraverso i corpi straziati dalla frusta. Permane il sospetto di un’arte che speculi sul dolore: o solo, di troppa arte. Similmente, nel dilaniato orgoglio nazionale, perdura qualche biasimo a La grande bellezza di Paolo Sorrentino (migliore film straniero): una furba parata felliniana, un prodotto artato e ruffiano – lamentano ancora. Parrebbe, semmai, una questione di poca arte, ma di chi guarda: anche meravigliarsi, senza pregiudizio, è un talento. Non meravigli, invece, l’ennesima defaillance di Leonardo Di Caprio: Matthew McConaughey, miglior attore protagonista per Dallas Buyers Club, meritava per l’istrionismo d’un personaggio più sofferto e meno clownesco di Jordan Belfort. Come d’altronde Cate Blanchett (miglior attrice protagonista) in Blue Jasmine di Woody Allen, per la sua splendida depressione da Tiffany. Bruttezze da riscattare: bellissime, perché umane. E ad effetto: riempiono gli occhi, che il vuoto sia quello degli spazi cosmici o di un’esistenza da affrancare da schiavitù, malattia, solitudine.
Antonio Maiorino