Sottotono la visita agli altari della reposizione nelle chiese, lo struscio, gli incontri, l’ultima cena prima del periodo di penitenza. Dalla tenda del convegno della parrocchia di Sant’Agostino al simbolo del grano del Duomo e della SS.Annunziata
Di Olga Chieffi
La visita ai Sepolcri del Giovedì Santo è una tradizione cara ai Salernitani. Sull’imbrunire, le famiglie unite escono di casa per questa lunga passeggiata nel nostro centro storico, una riconciliazione, con i tempi, i luoghi, i profumi di una città fatta a misura d’uomo. Altissimo è il significato cristiano di questo giorno, che in qualche momento sfugge a causa dei negozi aperti, del profumo di primavera, del voler forse già guardare oltre all’oscuro e dolente Venerdì santo. Tre, cinque, sette, i numeri dei sepolcri da omaggiare, sempre in numero dispari. Personalmente mi è caro il numero sette, le sette madonne della Salerno longobarda, sette le spade dell’Addolorata. Ma basterebbe ricordare che, come raccontato nella Bibbia, Dio impiegò sette giorni per realizzare la Sua Creazione e che sette sono i giorni della settimana che lo ricordano all’Uomo, che sette sono le note musicali che producono l’Armonia, una parola di sette lettere, per intuire il carattere esoterico di questo numero. Il nostro percorso è partito dalla cappellina della Marunnella ‘ e Portauova, che invitava ad una lunga notte di veglia, riflessione e preghiera. Le parrocchie oggi sono accorpate e l’altare della reposizione della chiesa di Sant’Agostino è stato allestito nella chiesa del SS.Crocifisso, antica sede della conversione del mago Barliario, colpito dallo sguardo ieratico del celeberrimo Cristo. Due le letture una dall’Antico Testamento evocante la tenda del convegno di Mosè, dal Esodo, l’atro dalla Lettera agli Ebrei, quella tenda diventa chiesa, ai piedi del Crocifisso che fa da sostegno e protezione alla tenda: lì il braciere per l’incenso, il pane azzimo, il grano, l’acqua per le abluzioni e per ritrovare la vera Luce, una Menorah posta al lato del sepolcro e un’anfora di fiori bianchi, che anche la Parrocchia di San Domenico ha scelto per adornare il suo altare. Nella chiesa di San Pietro in Camerellis quest’anno si ritrovano in pieno la tradizione e il simbolismo della Pasqua. Sono quattro gli elementi della creazione con i quali è costruito il cosmo dei Sacramenti: l’acqua, il pane di frumento, il vino e l’olio di oliva. L’acqua come elemento basilare e condizione fondamentale di ogni vita è il segno essenziale dell’atto in cui, nel Battesimo, si diventa cristiani, della nascita alla vita nuova. Mentre l’acqua è l’elemento vitale in genere e quindi rappresenta l’accesso comune di tutti alla nuova nascita da cristiani, gli altri tre elementi appartengono alla cultura dell’ambiente mediterraneo. Essi rimandano così al concreto ambiente storico in cui il cristianesimo si è sviluppato. Dio ha agito in un luogo ben determinato della terra, ha veramente fatto storia con gli uomini. Questi tre elementi, da una parte, sono doni del creato e, dall’altra, sono tuttavia anche indicazioni dei luoghi della storia di Dio con noi. Sono una sintesi tra creazione e storia: doni di Dio che ci collegano sempre con quei luoghi del mondo, nei quali Dio ha voluto agire con noi nel tempo della storia, diventare uno di noi. In questi tre elementi c’è di nuovo una graduazione. Il pane rinvia alla vita quotidiana. È il dono fondamentale della vita giorno per giorno, il vino rinvia alla festa, alla squisitezza del creato, in cui, al contempo, può esprimersi in modo particolare la gioia dei redenti, l’olio dell’ulivo ha un significato ampio: è nutrimento, è medicina, dà bellezza, allena per la lotta e dona vigore. I re e i sacerdoti vengono unti con olio, che così è segno di dignità e di responsabilità, come anche della forza che viene da Dio. Nel nostro nome “cristiani” è presente il mistero dell’olio. La parola “cristiani”, infatti, con cui i discepoli di Cristo vengono chiamati già all’inizio della Chiesa proveniente dai pagani, deriva dalla parola “Cristo” (cfr At 11,20-21) – traduzione greca della parola “Messia”, che significa “Unto”. Essere cristiani vuol dire: provenire da Cristo, appartenere a Cristo, all’Unto di Dio, a Colui al quale Dio ha donato la regalità e il sacerdozio. Significa appartenere a Colui che Dio stesso ha unto – non con un olio materiale, ma con Colui che è rappresentato dall’olio: con il suo Santo Spirito. L’olio di oliva è così in modo del tutto particolare simbolo della compenetrazione dell’Uomo Gesù da parte dello Spirito Santo. Infine, rimanda all’Orto degli Ulivi, in cui Gesù ha accettato interiormente la sua Passione. Con i quattro simboli la lancia, la corona di spine i chiodi della croce quella tabella INRI Iesus Nazarenus Rex Iudaeorum, a sfregio della Croce. In Duomo e nella Chiesa della SS.Annunziata, declinati in diverso modo, esposti ai piedi dell’altare i germogli di grano cresciuti nell’oscurità, sotto il panno viola issato sopra l’altare. I germogli di grano sono un dono pagano, simbolo del concetto fecondità-vita-desiderio del luogo felice, che risiede nel giardino: la sua idea rivela contenuti vitali che esprimono desideri e speranze maturati all’interno, nell’eterno spazio femminino, che riportano alla mente i “Giardini di Adone”. Nell’antica Grecia i sacerdoti mettevano in scena il matrimonio del dio con la Dea Madre, che veniva accompagnato dalle celebrazioni della cittadinanza; in particolare erano le donne che erano molto legate al suo culto, ed erano loro le “interpreti” più importanti del rituale. Veniva quindi rappresentata la morte del dio, a cui seguivano i lamenti e i pianti delle donne, le quali realizzavano i famosi “giardini di Adone”, vasi pieni di germogli di cereali e ortaggi che crescevano e appassivano molto velocemente, simboleggiando la vita del dio. Le donne piangevano la morte di Adone tenendo in mano i vasi di piante appassite; per permettere la resurrezione del dio, i vasi venivano quindi rovesciati nei fiumi e nelle sorgenti: abolendo o superando l’apparente realtà delle cose, se ne ricava un’altra sua propria, in cui l’irrealtà suprema diventa per ciò stesso il mistico suggello della suprema realtà. I piccoli vasi divengono, così simbolo di kepos o paradeisos di inesplorate delizie: una visione – che ritroviamo nel Cantico dei Cantici IV 13 – dove una prima discreta penombra, già rotta da qualche vago bagliore, non è che il breve gaudioso vestibolo, da cui miracolosamente si passa ad una serena temperie di terra e di cielo, a un’oasi di verde e di luce, che si adorna dei fiori più belli e si insapora dei frutti più dolci, il riso, il latte, il grano, l’essenza di arancio, le uova, l’ultima neve, lo “spirare” della raganella, per andare oltre il Venerdì Santo, con le sue tristi ombre, il perpetuo crepuscolo.