di Peppe Rinaldi
Questo giornale si è occupato tempo fa della «grande scatola vuota» rappresentata dall’Unione dei Comuni Alto Cilento. Oggi torniamo sull’argomento dopo l’adesione all’ente di altri tre paesi. Erano dodici, ora sono quindici. Una sub-provincia, in pratica, con tendenza all’extraterritorialità.
Questo istituto per l’associazione tra enti locali è stato partorito dal legislatore circa trent’anni fa per contenere lo spopolamento dei piccoli centri. Il senso fu questo: siete troppo gracili, la popolazione è molto anziana, di nascite non se ne parla, sarete tutti fantasmi quindi unitevi in modo che le sfide della vita amministrativa, politica e sociale possano essere affrontate meglio. Insomma, l’unione fa la forza. Qui invece, stravolgendo il proverbio, diremo che «l’Unione fa la truffa». E proveremo a (ri)spiegarlo dal nostro punto di vista.
Va innanzitutto detto che durante il tragitto sono emerse stranezze e incongruenze determinate dall’utilizzo “sereno” di questa nuova leva istituzionale. Perché è tra virgolette il termine “sereno”? Perché, se quanto ipotizzato trovasse fondamento e riscontro definitivi, ci sarebbe da «star sereni» tutti in quanto di controlli e approfondimenti non si vede e – verosimilmente – non si vedrà l’ombra. In parole povere, chi gestisce la baracca può dormire su sette guanciali perché sa che nessun organo di vigilanza e controllo farà mai veramente e fino in fondo il proprio dovere, come già sperimentato in altre occasioni. Chi sia il direttore dell’orchestra è noto: si tratta dell’avvocato Franco Alfieri, personaggio tosto e dall’incessante attività politica e, soprattutto, dall’enorme disponibilità finanziaria derivante dalla proprietà di una banca – casualmente tesoriere anche dell’Unione – dettaglio centrale per comprendere storia e azione dell’attuale presidente della Provincia, nonché sindaco di Paestum, prima ancora di Agropoli e Torchiara, uomo forte del Pd cui il presidente De Luca ha lasciato, almeno sinora, ampi margini di manovra. E non ci riferiamo alle stupide ironie sulle “fritture di pesce”, quella è roba che vellica l’inconcludente moralismo di ampi settori politico-mediatici.
Ma qual è il cuore del problema? Il ragionamento sarebbe lungo e complicato, ci basti però sapere di cosa parliamo rifacendo il percorso che il legislatore ha tracciato attraverso le evoluzioni della legge specifica, altrimenti non si capirà nulla del problema.
ATTO DI NASCITA
Con la riforma delle autonomie locali del 1990 nasce il nuovo ente chiamato “Unione dei Comuni”, la cui disciplina entra in scena con l’art. 26 della storica legge 142. Il legislatore intendeva sollecitare i piccoli comuni a unirsi mettendo insieme risorse, funzioni e servizi per rendere più agevole la vita di migliaia di piccole realtà che, ancora oggi, costituiscono l’ossatura del sistema amministrativo italiano, costituito da oltre 5.500 comuni sotto i 5 mila abitanti. La facoltà di unione concessa dal legislatore nel tempo si è trasformata in necessità, quasi un obbligo, per i comuni di limitata presenza demografica, distinta tra centri fino a 3 mila abitanti e centri da 3 mila a 5 mila abitanti. L’intuizione della legge 142/90, dopo la prima esperienza decennale, spinge il legislatore a rendere stabile la norma con il T.U. 267/2000, in cui è confluita la concezione di autonomia e indipendenza deliberata dalla Ue con il principio, sancito nel Trattato di Maastricht, di sussidiarietà, di autonomia e indipendenza degli stati sottoscrittori. Questo principio si diluisce poi in ogni stato dell’Ue come vincolo operativo di bilancio e dei relativi conti. L’art. 32, poi, coerente con la normativa europea dice che «l’Unione dei Comuni è ente locale costituito da due o più comuni, di norma con termini, finalizzato all’esercizio associato di funzioni e servizi». Al comma 4 della legge è stabilito che all’Unione si applichino i principi previsti per l’ordinamento dei comuni: bilancio, contabilità, status degli amministratori, organizzazione dei servizi e degli uffici, personale e responsabilità, in pratica tutto come un comune. Quindi una Unione regolarmente costituita sostituisce tutti i comuni partecipanti nell’organizzazione unica del sistema di programmazione e gestione delle funzioni e dei servizi trasferiti. Nasce il nuovo ente e, contestualmente, il comune che vi ha aderito cessa di svolgere funzioni e servizi mettendoli in pausa durante lo svolgimento presso l’ente delegato.
IL PUNTO CENTRALE
Qui è il nocciolo della questione perché l’Unione Comuni, per un classico difetto interpretativo, ha finito in molti casi per diventare un doppione del comune partecipante. L’Unione a cui sono state trasferite le funzioni e i relativi servizi, in pratica si è trasformata in un giocattolo usato per altre finalità. Pur deliberata la costituzione del nuovo ente con il trasferimento delle funzioni, i comuni in alcuni casi, di fatto, non vi hanno mai effettivamente rinunciato, costruendo cioè un castello ma senza dotarlo di mobili per abitarlo e di organizzazione per farlo funzionare. Il concetto di autonomia del nuovo ente è rimasto una chimera nel libro dei sogni del legislatore, il quale si è visto costretto a delineare le linee guida per le autonomie delle regioni, province e comuni. Nel riordino della normativa (Tuel 267/2000) il legislatore ha infatti rimarcato il principio fondamentale di contenimento della spesa pubblica a tutti i livelli amministrativi e, per agevolare la nascita di questo nuovo ente, ha previsto pure contribuzioni incentivanti alle Unioni: sempre però che i comuni partecipanti ne trasferiscano effettivamente le funzioni. La domanda che ci interessa allora sarà: l’Unione Alto Cilento le ha trasferite veramente queste funzioni? Si direbbe di no, come abbiamo già raccontato diffusamente tempo fa. E se non le ha trasferite, come la mettiamo con il cogente rispetto della legge visto che questo principio non può essere disatteso? Qui non si parla di interpretazioni della norma bensì di chiara evidenza della sua inosservanza. Ci sono gli organi di vigilanza e controllo inventati proprio per questo: ecco, è proprio qui che non ci troviamo, nel senso che ancora una volta si ha la sensazione che (quasi) tutto ciò che riguarda una certa area geografico-territoriale della provincia di Salerno sia una specie di zona franca.
AUMENTANO
LE ADESIONI
Fino al 20 settembre scorso i comuni aderenti all’Unione erano Agropoli, Capaccio, Giungano, Cicerale, Laureana Cilento, Lustra, Ogliastro Cilento, Prignano Cilento, Perdifumo, Rutino, Torchiara e Albanella. Più che geografica, diremmo si sia trattato di un’espansione geo-politica, dal momento che appare evidente la non omogeneità, rispetto alla ratio della disciplina legislativa, di alcuni centri associati (vedi Agropoli, Capaccio e Albanella). Da quella data l’Unione Alto Cilento ha incrementato le adesioni, passando da 12 a 15: Omignano, Salento e poi, allargando ulteriormente l’ambito territoriale nello spazio di un’altra Unione, quella del Velino/Alento (l’area “parmenidea” più a sud, per intenderci) attraverso il recesso e l’adesione di Castel Nuovo Cilento.
Saltando la descrizione di una buona parte dell’impianto legislativo – questo è pur sempre un giornale e non una rivista specializzata – creato e adattato nel corso dell’ultimo ventennio, a corroborare certe ipotesi è intervenuto il Formez che, però, fa risalire il suo ultimo rapporto sull’Unione Alto Cilento al 2015, anche se rispetto a otto anni fa la situazione non è variata, anzi.
Prima di riassumere il rapporto del celebre istituto d’analisi sul Mezzogiorno va fatta una premessa: se all’Alto Cilento è possibile dirigere la barca in un certo modo ciò lo si deve innanzitutto alla mancata creazione degli Ambiti ottimali territoriali specifici da parte della Regione Campania. Il presidente De Luca ovviamente conosce questa situazione e sa bene di cosa stiamo parlando; perché non vi abbia messo mano può essere altrettanto ovvio, al netto delle priorità individuate dalla Regione. Ne consegue, però, che ognuno fa il cavolo che gli pare: il legislatore regionale non disegna il perimetro, i controllori non controllano, la politica, anche a destra, è quel che è, i media non ne parliamo, i costi restano costi, quindi la sarabanda va avanti finché qualcuno o qualcosa non la fermerà. Sarabanda in che senso? Nel senso che la cornice appare buona ma è la tela a sembrare difettosa: l’ente associato è in sostanza una specie di negozio simulato perché in realtà i comuni che vi partecipano non hanno trasferito servizi e funzioni, rispondendo a logiche diverse da quelle della cura dell’amministrazione. Il concorso confezionato per l’amico, il posto alla fidanzata, la parcella al professionista, il comando temporaneo da altri enti, la girandola dei voti, il progettino qua e il convegno là, la mancetta su e il favore giù, il finanziamento sopra e gli interessi sotto. Sarà pure l’Italia ma resta sempre una notizia.
Ma perché insistiamo col dire che il problema sono i controlli? Facciamolo dire (ripetere) al Formez: «… i comuni, tranne Agropoli e Capaccio, non obbligati per legge, hanno aderito con deliberazione di Consiglio comunale e dichiarato di trasferire le funzioni previste…senza perfezionare i conseguenti atti pubblici». Che succede a qualsiasi cittadino o ente italiano che non «perfeziona un atto»? Semplice, non risulterà valido, efficace o come dir si voglia; ma occorre che qualcuno sollevi il problema. Nel caso dell’Alto Cilento, a parte questo piccolo giornale corsaro, c’è stato qualcuno che abbia posto il tema? Difficile.
Nell’universo penale è già successo, figuriamoci in quello amministrativo, contabile, prefettizio, a valle dei quali pure potrebbero emergere profili penalistici rivenienti da costanti omissioni di vigilanza e controllo in capo agli stessi soggetti istituzionali deputati. Ma, anche qui, serve che qualcuno entri nel merito e non si spaventi per le conseguenze eventuali. Cosa tutt’altro che facile.
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