– Io Capitano. Antonio Juliano è vissuto per 12 anni indossando la maglia del Napoli e al tempo stesso la fascia che gli assegnava la guida, anche morale, sui compagni di squadra. ‘Totonno’, come lo chiamavano affettuosamente i tifosi, ha lasciato il segno sui campi di calcio e, dopo essersi ritirato dagli impegni agonistici alla matura età di 37 anni, anche seduto alla sua scrivania di dirigente. E’ stato lui, con Ferlaino, a portare Diego Armando Maradona. Con il Napoli, ha sempre condiviso tutto e di quella squadra è stato una vera e propria bandiera, lui che era nato nel quartiere popolare e operaio di San Giovanni a Teduccio e che non aveva mai dimenticato le sue origini. Juliano è stato l’unico giocatore della storia del Napoli ad essere stato convocato in Nazionale per tre mondiali consecutivi. Lo portarono con sè Edmondo Fabbri nella fallimentare spedizione del 1966 in Inghilterra e poi Ferruccio Valcareggi, prima nella epica manifestazione in Messico nel 1970 e poi in quella deludente del 1974 in Germania. Juliano giocò in queste tre competizioni soltanto per un totale di 17 minuti, subentrando a Bertini nella finale di Città del Messico persa per 4-1 dal Brasile che si aggiudicò la Coppa Rimet. Ma per i napoletani Juliano è stato soprattutto il capitano che, prima dell’avvento di Maradona, ha meglio rappresentato la squadra e ha più di tutti onorato la maglia azzurra portandola con la fierezza e l’orgoglio di un figlio della città. Con il Napoli Juliano giocò 506 partite in 17 stagioni, dal 1961 al 1978, in 12 delle quali indossò anche la fascia di capitano. Concluse la sua carriera a Bologna giocando 15 gare e contribuendo quell’anno alla salvezza dei rossoblù. Con la maglia azzurra vinse due Coppe Italia, nel 1962 e nel 1976, una Coppa delle Alpi (1966) e una Coppa di Lega Italo-Inglese (1976). Con la maglia della Nazionale conquistò il titolo di campione d’Europa nel 1968 e fu vice campione del Mondo nel 1970. Spesso raccontava dell’origine della sua fortuna nel mondo del calcio. “Devo tutto a Pesaola – diceva -. E’ stato l’uomo più importante nella mia carriera”. Il Petisso lo fece debuttare in prima squadra a 17 anni in una partita di Coppa Italia contro il Mantova (31 maggio 1962) e poi in serie A contro l’Inter (17 febbraio 1963). Da calciatore non fu mai troppo appariscente. La sua forza consisteva invece proprio nella normalità del gesto tecnico e atletico. Un punto di riferimento sicuro, un faro nel centrocampo sul quale i compagni di squadra potevano fare sempre affidamento soprattutto nei momenti più difficili e concitati della partita. In campo Juliano era diligente e preciso, non dava spazio alle trovate fantasiose, il suo modo di giocare era lo specchio del suo carattere schivo, a volte impenetrabile, in certe occasioni perfino un po’ burbero. Non a caso Antonio Ghirelli lo definì un ‘napoletano atipico’ perché era quasi sempre silenzioso, serio, controllato e dava di sè un’immagine esattamente opposta a quella che nell’immaginario collettivo identificava i suoi conterranei. Lasciati i campi di calcio, dopo qualche tempo fu chiamato da Corrado Ferlaino che gli offrì la poltrana di direttore generale. Il suo primo colpo fu portare a Napoli Ruud Krol che Juliano nel 1980 andò ad ingaggiare a Vancouver dove l’olandese volante si era autoemarginato al termine del ciclo vincente dell’Ajax. Krol doveva restare in maglia azzurra in presito per sette mesi ma si fermò a Napoli per quattro anni segnando una svolta nella crescita della società che sarebbe culminata qualche anno dopo con l’avvento di Diego Maradona. E l’ingaggio del Pibe de oro fu anch’esso un’intuizione di Juliano il quale andò a Barcellona per decantare al campione argentino le bellezze di Napoli e convincerlo ad accettare un trasferimento che rappresentò il momento più sconvolgente e importante per la storia della società. Con il Napoli, Juliano ha vissuto immense gioie e pochissimi dolori. Tra questi ultimi quello che ricordava con maggior rimpianto era la mancata conquista dello scudetto nel 1975 con la squadra allenata da Luiz Vinicio, un tecnico rivoluzionario per quei tempi in cui già predicava e praticava il calcio totale. Il 6 aprile di quell’anno, nel match scudetto Juventus-Napoli, Josè Altafini, “core ‘ngrato”, che aveva giocato per sette anni con la maglia azzurra e si era poi trasferito a Torino, segnò la rete del 2-1 quasi allo scadere del tempo regolamentare, consegnando di fatto lo scudetto ai bianconeri. La delusione per Juliano, il capitano, la bandiera di quella squadra spettacolare fu tanta e gli rimase dentro per sempre il rimpianto di non essere mai arrivato alla conquista del tricolore. Conclusa anche la fase della sua vita professionale da dirigente, con l’avvento delle emittenti private Juliano divenne un opinionista molto ricercato per la lucidità dei suoi commenti e per l’arguzia e la competenza con le quali commentava il calcio giocato da altri. Poi d’un tratto scomparve dalle scene quando scoprì di essere malato. Forse non voleva che tra la gente, negli occhi dei suoi tifosi, rimanesse l’immagine di lui, il capitano, sul viale del tramonto della vita.