di Lorenzo Gigliotti*
Gli americani, si sa, si sono divertiti so much con Lina. Ridono e si commuovono di un mondo antropologicamente lontano e però nella sua complessità vicinissimo al destino di ogni uomo. Lina (loro, gli americani, la chiamavano Laina) ha avuto la capacità di raccontare l’imperfezione della vita, la sua ambivalenza. Ma non basta: più degli altri, più di ogni altro, ha avuto la capacità di far sorridere dell’amarezza di questa ambivalenza, del fatto che nulla è dato per sempre. Non c’e’ commedia nei film della Wertmüller, anche in quelli più apertamente comici. C’è il grottesco. Un grottesco però lontano dalle forme inquietanti del Barocco, un grottesco che invece ride divertito delle diversità antropologiche che attraversano l’Italia, così priva com’è di valori comuni condivisi e così scissa nel corpo sociale. Un grottesco che è divenuto forma necessaria per raccontare l’Italia forzosamente Unita, con un Nord inevitabilmente industrialista e un Sud immobile nella sua eterna controra. D’altronde, il primo capolavoro che la Wertmüller girò, “I basilischi”, risente di tutta la ricerca del grande antropologo meridionalista Ernesto De Martino, dedicata alla persistenza di valori e credenze di una società rimasta per secoli nell’isolamento e nell’emarginazione da parte dei poteri centrali. Il film, del 1963, è ambientato in una zona sperduta del Sud Italia, tra Palazzo San Gervasio, paese dei propri avi pugliesi, e Minervino Murge. In questa location assolata e senza ombre si consuma l’esistenza tragicomica di tre giovani sedotti dalla vita ricca di lusinghe della Capitale ma incapaci, per una accidia oramai storicizzata, di salpare verso la vita senza ozio, quella della produzione. Così, in “Travolti da un insolito destino nell’azzurro mare di Agosto”, un film del 1974, lancinante nella sua verità sociale, c’è tutto il conflitto che esiste tra il capitale e lo sfruttamento delle culture subalterne. Si ride per gli sguardi preistorici di Gennarino. Si ride di fronte alle superbe angherie di Raffaella. Ma quello della Wertmüller non è un cinema documentaristico, piuttosto è un racconto che nutre l’immaginazione morale. E alla fine del racconto, come di ogni favola con una sua morale, l’immaginazione dello spettatore viene arricchita da una consapevolezza raggiunta attraverso un sorriso. In questo film si ride a crepapelle alle spalle della bestia proletaria ma si è anche toccati dall’ambivalenza dell’amore, ambivalenza che sentiamo propria. L’arte della Wertmüller è consistita proprio in questa capacità di narrare senza argomentare, di raccontare una storia tragica facendoci sorridere, talvolta amaramente, altre volte allegramente, ma sempre “purificando il simile col simile” per la catarsi finale.
*Regista poeta