Questa sera, al Teatro Verdi di Salerno, alle ore 18, prima pomeridiana per l’ultimo titolo pucciniano che saluterà protagonista Maria Guleghina, diretta da Daniel Oren, per la regia di Pier Francesco Maestrini
Di OLGA CHIEFFI
Sarà una Turandot fedele all’idea drammaturgica di Giacomo Puccini, quella che stasera alle ore 18, debutterà sul palcoscenico del Teatro Verdi di Salerno, affidata alla regia di Pier Francesco Maestrini, alle scene e costumi di Alfredo Troisi, alla bacchetta di Daniel Oren, che nella replica del 5 dicembre cederà il podio a Gaetano Soliman e alle voci di Maria Guleghina, nel ruolo del titolo, di Gustavo Porta, che impersonerà Calaf e della coppia Valeria Sepe e Bing Bing Wang che divideranno il ruolo di Liù, nel corso delle tre recite. Su di un palcoscenico claustrofobico, delimitato dai simboli dell’antico Oriente e da massicce e invalicabili porte di ferro, regna sovrana Turandot, una delle muse nere della lirica. L’indirizzo pucciniano era quello di ricondurre la fiaba cinese ad una dimensione vicina alle fonti orientali, da rituale tragico e crudele, pertanto “disumano”, dove la figura ieratica, lontana, anzi irraggiungibile della principessa, l’intoccabilità mitica, secondo cui Turandot viene pensata, impostata e svolta dall’impassibile e scatenante apparizione silenziosa del Primo Atto, al protagonistico giganteggiare nel secondo, non ammette di venire sgelata e umanizzata per la struttura e l’essenza del personaggio. Figura “gelida”, come la definisce una vocalità ad hoc, che è nuova in Puccini, vocalità “pesante” in rimando al Richard Strauss di Elektra e Salomè, nelle puntate subitanee ed impervie, per tessitura e spessore del peso declamatorio. Questo il calcolatissimo “gelo” di Turandot, più che l’enigma, l’emblema della Principessa di Ghiaccio. La Turandot pucciniana rifiuta l’uomo e lo punisce per vendicare la memoria di un’ava stuprata e uccisa (mai tema più attuale), compenetrata e posseduta dal ricordo dell’antenata e dal fantasma della “notte atroce”, in cui morì. La principessa di gelo nel lanciare il terzo e decisivo enigma a Calaf, simbolo in luogo di creatura, stratificazione di odio che non lascia posto all’amore, scatena un’opera sotto il segno del nero e del rosso, di notte, sangue e morte, anziché di luce e di vita, di cui è motore l’orchestra. Daniel Oren e Gaetano Soliman, si troveranno alla testa di un forte e variatissimo spiegamento corale, un’orchestra molto nutrita in buca e una seconda, interna, con soli ottoni, saxofono, percussioni e organo, come il coro, preparato da Tiziana Carlini, unitamente a quello delle voci bianche di Silvana Noschese, di volta in volta sgomento e inneggiante, crudele o atterrito, di primitiva violenza o teneramente partecipe, anche l’orchestra è quasi un personaggio fra le dramatis personae, in quanto determina l’atmosfera passo passo, inventando effetti coloristici violenti e preziosi al tempo stesso. Sarebbe spettacolo anche vedere e conoscere le percussioni inconsuete e orientaleggianti, tam tam, gong cinesi con nove altezze sonore, un gong grave posto in scena che è strumento musicale e strumento drammatico per i colpi che Calaf sferra su esso, lanciando la sfida a Turandot, uno xilofono, uno xilofono basso, ossia un basso birmano, anzi siamese, campane tubolari, celesta, glockenspiel e un tamburo di legno di registro grave, questi i colori della Cina di Puccini. E’ proprio questo il nuovo e ultimo viaggio di Puccini, l’ultimo approdo, un’evasione dal mondo occidentale, per la quale il compositore aveva già fatto follie in passato, con Madame Butterfly, e che ora aveva finito di stregarlo. La partitura esce allo scoperto, grondante di suoni, splendente di impasti ferrigni e luci adamantine, stellari, un astro fra soffici nubi corali, ora balenanti ora soavemente adagiate nello spazio, come la coda di una cometa. Ma non si tratta di un pellegrinaggio, è una partita molto più dura: Ping (Fabio Previati), Pang (Vincenzo Peroni), Pong (Francesco Pittari), ne dettano le regole, con le quali potresti anche perdere la testa nel giro di qualche battuta, specialmente dopo il vincerò di Calaf. Con loro Timur, cui darà voce Carlo Striuli, Altoum, Angelo Casertano, un mandarino, Angelo Nardinocchi e il Principe di Persia, Enrico Terrone. Il canto tenero di Liù, che accarezza il bamboleggiare dei toni interi, con donazioni più intense, eleva una corrispondente pietà dal coro, l’unica pietas consapevole che l’opera conosca.