di Raffaele D’Andria
In questi giorni, fino al 28 aprile 2019, il MAXXI di Roma presenta una mostra definita di ‘approfondimento’ sulla ‘Strada Novissima’. Tema centrale nel dibattito sull’architettura degli ultimi anni del secolo scorso, la ‘Strada’ scaturì dalla Prima Mostra Internazionale di Architettura della Biennale di Venezia, aperta il 27 luglio 1980 con la presidenza di Giuseppe Galasso. Dedicata alla ‘Presenza del Passato’, l’impostazione della stessa fu affidata a Paolo Portoghesi e ad una commissione consultiva formata dai maggiori esponenti sia della critica sia dell’architettura contemporanea. Tra le iniziative espositive coordinate da Portoghesi, la più significativa fu quella della ‘Strada Novissima’, allestita nelle Corderie dell’Arsenale come una sequenza di dieci facciate per ciascun lato, tali da rappresentare una ‘galleria di autoritratti architettonici’ , firmati da autori di fama internazionale. La ‘Strada’ – ricorda il coordinatore – fu intesa come “un esperimento di innovazione nel corpo della città vivente che si basava sulla convinzione che una strada può essere non solo un fenomeno di crescita spontanea, ma un fatto unitario programmato”. La novità dell’impresa era nella sua configurazione, “affidata non a un unico architetto […] ma a molti architetti coinvolti in una nobile gara.” In realtà, l’impresa rivelava una insistente metafora sul ‘ritorno alla strada’ quale elemento strutturale della città, e quindi sulla riappropriazione del passato, “uno dei termini fondamentali della ricerca post-moderna”, non solo architettonica. La mostra in corso al MAXXI ha riallineato tutti i documenti che furono espressi a supporto della ‘Strada Novissima’, a partire da quelli che testimoniavano le tre diverse tendenze del contemporaneo panorama architettonico. La prima di queste tendenze era quella del neo-razionalismo, rappresentato dalla poetica di Aldo Rossi; la seconda, dal classicismo urbano anti-industriale; la terza, dall’eclettismo radicale rappresentato da Charles Jencks. Comune alle diverse tendenze vi era – a volte esplicitamente, a volte di risvolto – la visione dell’architettura come spettacolo e come ‘spazio dell’immaginario’.
Realizzate con materiali effimeri e con tecniche artigianali, in conformità a un convenzionale ‘regolamento edilizio’, le facciate rimandavano alle apparecchiature erette in occasioni di eventi e di feste popolari. Il tratto culminante delle apparecchiature era, però, nel policromo ‘Teatro del Mondo’, commissionato da Portoghesi ad Aldo Rossi quale rievocazione delle cinquecentesche scene teatrali mobili, allestite su barconi o zattere.
Il dibattito che conseguì a quell’esperienza fu ampio e virulento, coinvolgendo le maggiori figure della critica. Tra i critici più appassionati si annoverò Bruno Zevi, il quale intravvide in essa il principio cancerogeno della ‘simmetria’. Applicato ad un’esperienza “retriva, vile e scandalosa”, tale principio – precisò il grande critico – esprimeva solo la “distorsione di una decina di persone, psicotiche o depravate.”