Cattedrale affollata per la messa funebre proposta dall’Ossca ma, nella confusione generale, spiccano unicamente i tromboni di Cosimo Panico e Gennaro Cibelli e la voce del mezzosoprano Beatrice Amato
di Marina Pellegrino
E’ primavera e, ogni anno, si scatena la caccia al titolo artistico e di studio. Più altisonante è l’opera proposta e il luogo deputato, maggiore il valore al di qua e al di là dell’esecuzione. Concerti, solisti, spalle, concertini e prime parti, concorsi, concorsetti, primi premi assoluti, seminari e master, convegni, spesso al seguito dei propri maestri, giornali, riviste, che hanno da tempo preso a pubblicare qualsiasi comunicato stampa, dando notizia di ogni aria, parola e pennellata venga prodotta, in qualsiasi contesto, sono tutti fonte di crediti, punteggi, centesimi, avanzamenti verso la realizzazione del sogno, la supplenza scolastica, o il posto, oramai, pseudo-fisso del concorso pubblico, ove anche il brevetto di uno sport fa testo e può essere acquistato. I cartelloni di rassegne, anche di rilievo, s’infarciscono di miserrime performances, grazie a qualche “calcio” tirato e ricevuto dal politicante amico di turno, ma è noto che sono l’asino o il mulo a scalciare. Incline al panegirico, al superlativo, all’iperbole, infrangendo, oltre che, sovente, grammatica e sintassi, ogni senso della misura, certa stampa riesce, purtroppo, ad ammaestrare il pubblico che rispetta lo pseudo totem della Cultura, facendogli tributare il preventivo assenso a tutto ciò che gli vien detto incarnare il prodotto buono. Tutto ciò ha portato il pubblico ad una regressione: la capacità di ascolto del medio consumatore di musica, diciamo pure dell’abbonato di una grande istituzione, è regredita a livelli elementari, rendendolo connivente di un mondo fatto, oramai, di sponsorizzazioni, pubblicità e promozioni, intento a celebrare le sue fortune, fingendo, come in un ballo in maschera, convenzioni e usi di una società che in tempi, parecchio lontani, aveva pur avuto una salda radice culturale, in particolare a Salerno. Ed eccoci al Requiem di Wolfgang Amadeus Mozart celebrato nel duomo di Salerno da un’orchestra, quale è l’Ossca diretta da Ivan Antonio, composta praticamente di debuttanti nel grande repertorio sacro mozartiano, un mondo a parte, da studiare in modo particolare e approfondito, in cui si ha a che fare con accompagnamenti “colla parte”, ossia dal ruolo subalterno, e soprattutto con componimenti fugati a cappella o chiuse corali di sapore arcaicizzante con quinte vuote come la conclusione del Kyrie o del Rex tremendae, ove l’intonazione dei due cori amatoriali, l’Hirpini Cantores di Carmine D’Ambola ed il Lab di Katja Moscato, la quale, gemma rilucente del magistero di Antonello Mercurio, ritrova la sinfonica salernitana dopo l’indefinibile Traviata estiva, ha traballato non poco. Le quattro voci protagoniste sono state quelle amiche di Annalisa D’Agosto, Beatrice Amato, Orazio Taglialatela Scafati e Nicola Ciancio. Se una emozionatissima Annalisa D’Agosto ha prolungato il “tremor” sopranile per quasi tutte le “uscite”, è stata l’armoniosa, calda e perfettamente in stile, vocalità del mezzosoprano Beatrice Amato, a salvare l’intero quartetto, avendo alla sua sinistra un ferroso e dirompente tenore, quale è Orazio Taglialatela Scafati, mentre abbiamo avvertito una certa rigidezza nel basso Nicola Ciancio che, nell’eleganza di fraseggio e interpretazione del Tuba Mirum è stato completamente surclassato dal duttile trombone di Gennaro Cibelli. Fugati da dimenticare per il coro e un po’ tutte le pagine più febbrili e concitate, minimi i contrasti dinamico-espressivi, in particolare nell’ Hostias e disuguaglianza d’intenzione tra le prime parti dell’ensemble e tra gli stessi solisti, tra visioni asciutte e cantabilità e vibrato all’italiana. Un contest in cui il grande assente è stato proprio il direttore e orchestratore Ivan Antonio e, naturalmente, le poche prove. Applausi per tutti nel clima lieto della Pasqua italiana delle imminenti gite fuori porta, magari a Ravello.