di Alfonso Mauro
Volendo intenzionarsi a prestare etimologico orecchio a una tra le maggiormente popolari esplicazioni linguistico-filogenetiche del lemma “Barocco”, la vertigine della scoperta vocabolariale ci ricondurrà a “barrueco”, spagnola (magari spagnoleggiante, magari messicana come il bis concesso in fin di serata Sandunga una trascrizione di Stefano Scodanibbio) perla di forma irregolare — con ben note implicazioni, ricadute, e punti di caduta ideologico-estetici recepiti e sovente sviliti dalla critica anzitutto figurativo-letteraria; ma la perla schiusa e sorpresa sabato 21 maggio sera presso la preziosa conchiglia della chiesa di S. Giorgio a Salerno, pur multiforme, e principiante proprio da una extra-vaganza musicale, ha brillato fulgida opalescente, e nel modo che più grato s’appressa alla perfezione. Merito anzitutto dei musicisti, poi del programma. Sapienti e pluripremiati pêcheurs de perles, i virtuosi archi del Quartetto Prometeo, i quali, all’interno della programmazione di “Benedetta Prima… vera!” (preferiamo rimodularne il titolo espungendo i pleonastici ulteriori esclamativi più usi e atti a FB che non a direzioni artistiche altrimenti assai accorte), ci hanno con loro tuffati in una ricerca prodigiosamente eseguita, massime nel vertiginosamente arduo Shostakovich. Ma vàdasi in ordine. In praelusio vespri, una mirabile quanto dilettosamente capricciosa trasmogrificazione d’autori moderni (Scarlatti, Da Venosa, Merula) baroccheggiata — appunto — da ottime bacchette contemporanee (Salvatore Sciarrino, Ivan Fedele, Francesco Filidei, YouTube è ricco di liberi ascolti dai tre) capaci d’allignare i sereni estri capziosi barocchi e tardo-rinascimentali di sottili inquietudini, di percussività nervose, d’una meditatività strisciante, e di sonorità sorprendentemente inedite e riattualizzanti, egregiamente eseguite e applaudite e sorrise in duplice curtain call da un pubblico leggermente meno trabocchevole e scalmanato di quello copioso accorso alla scorsa occasione. Un ascolto meditabondo che merita un ritorno, magari dal comodo di casa. La “Suite Arcana” si è ben squadernata, saggiando il terreno uditivo per il momento apicale della serata: il Quartetto per archi n.5 in sib maggiore, op.92 di Dmitrij Shostakovich. Al quasi esoterico sono felicemente e viepiù cogitabonde succedute le diaristiche confessioni euterpiche del Pentagramma sovietico per eccellenza, ben quivi colto dai Prometeo (ed amplificato da un’acustica non confacentissima alla cameristica ma inusitatamente efficace ad acuire i monologici effetti spettrali dei Quartetti) nella sua travagliata metastasi compiuta da enfant prodige della Rivoluzione a persona non grata dello Stalinismo; il pezzo fu non a caso per la prima volta eseguito solo dopo la morte del Segretario del PCUS (1953), nonostante fosse stato composto l’anno prima. Tale e pervadente è la meditatio mortis degli ultimi quartetti che la rilettura dei precedenti non può paradossalmente esimersene, massime dove, pur molto dovendo alla storia della forma (illuminante l’accostamento al Quattordicesimo di Schubert), si principia a divergere dal Pubblico e dallo Shostakovich pubblico, abbandonando la celeberrima irriverente sardonicità circense e politica, e vergando indimenticabili pagine di tormentata introspezione, permutantesi sulla nota autocitazionistica boutade delle note D-S-C-H (re, mib, do, si). Autografo in notazione musicale tedesca. La dispassione è qui cinica, ruvida, innervata, snervata di mirabili crampi; e, come si rarefanno, le note accrescono in pregnanza conducendo in un less is more d’intensità emozionale che termina questo glacialmente austero quartetto su un morendo. Appunto. Quella Morte, magari con fanciulla, che informò tanta di quella arte figurativa tedesca rinascimentale e barocca da divenir ubiquo topos del mondo culturale protestante, e accostante com’è noto la vanitas del sottinteso (ma non troppo) erotico alla nota ossessione luterana innestata sulla Danza macabra. L’inquietante idée fixe riebbe corso nel Romanticismo grazie alla lirica “Der Tod und das Mädchen” dell’altrimenti dimenticabile carneade Matthias Claudius, donde Schubert trasse un fortunato Lied eponimo-omonimo del Quartetto n.14 e citato musicalmente nel secondo movimento di quest’ultimo. L’esecuzione del precedente brano è però contrattasi così ardua e per sua natura esigente, che è assolutamente umano l’essersi attesi alcuni quasi impercettibili momenti di stanchezza da parte degli eccellenti Rovighi (violino), Campagnari (violino), Waskiewicz (viola), Dillon (violoncello). Ma anche il maestro indiscusso dei Lieder quivi non fa per celia — e fin dallo scultoreo attacco (violento fortissimo) del tema principale e delle drammatiche pause, in una dicotomica dinamica che lo permea tutto; e i febbrili crescendo, le transizioni di tema, il discorso armonico cangiante, i virtuosismi acuminati massime il primo monumentale e l’ultimo movimento compiono il resto. Fino al vorticoso conclusivo con ripresa e prestissimo in coda. È il turbamento dell’animo incapace di sottrarsi al suo destino esiziale, la transitorietà “lieta e pensosa” del salire “il limitare di gioventù”: “Vorüber! Ach, vorüber! / Geh, wilder Knochenmann! / Ich bin noch jung! Geh, lieber, / Und rühre mich nicht an. / Und rühre mich nicht an.” — “Vanne da me, va’, atroce / fantasima, uomo d’ossa! / la grazia mia precoce / non tangere: altrui spossa, / altrove altrove passa.” (“la fredda morte ed una tomba ignuda / mostravi di lontano”). Un ascolto spossante quanto l’esecuzione, forse, sollecitando la cameristica un’attenzione-mira precisissima (e per chi vuole e sa infallibile) nei confronti dei singoli strumenti; ma proprio quinci quel senso d’edificazione musicale comparabile a quello succedente la visione di un dramma a teatro. E drammatici i brani sono, raccontanti una storia più o meno precisa e tanto più coinvolgente quanto più esigua è la formazione che l’esegue. Il numinoso ammutolirsi davanti opere tanto imponenti dovrebbe con esse torreggiare, ma il saturdì vespro del maggio odoroso sa sovvertire il dentro e il fuori con dinamiche ovviamente aliene al teatro ma da prendere in santa considerazione quando “il teatro esce tra la gente” come spesso detto in conferenza stampa e altrove; tanto che il bis concesso dopo generosi applausi è decisamente impallidito, appollaiato scomodo sul vociare del pubblico già defluente — argine ammirevole ma inefficace alla marea, l’imperioso gesto di Marzullo alle maschere sull’uscio. Ma poco male, dopotutto, e per un concerto magistralmente eseguito e cui è destramente riuscito di rialzare l’asticella di “Benedetta Prima…vera!”. E, pur sendo restati nuovamente orfani della guida all’ascolto (al tuffo) altrove sempre affidata al pubblico ingrediante, la pesca di perle è stata assai fruttuosa.