Tino Iannuzzi, la passione per la politica - Le Cronache
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Tino Iannuzzi, la passione per la politica

Tino Iannuzzi, la passione per la politica
di Matteo Gallo
È tutto lì. In via Leopoldo Cassese, nella strada che porta sull’asfalto il nome dello storico e archivista italiano con il quale condivide il sacro valore della memoria e l’amore per il Sud. Ed è tutto lì, nell’elegante studio al primo piano di un edificio che si arrampica verso le nuvole poco prima dell’acquedotto medievale, in pieno centro a Salerno, dove ogni stanza è un racconto a porte aperte sulla sua vita pubblica e privata. Storie nella storia. Una dentro l’altra. Corposa risma di pagine dell’esistenza sulla quale Tino Iannuzzi, sessantuno anni, avvocato e parlamentare di lungo corso, politico di ispirazione e formazione democristiana, soffia con il calore di parole così generose da non fare torto alcuno ai tanti ricordi cui vanno collegandosi. C’è lo scrittoio di nonno Barbato, notaio di Valle dell’Angelo, piccolissimo comune cilentano. Ci sono le collezioni di campanelle, soldatini, penne e biglietti delle finali di coppa dei campioni giocate dal Milan. «Tranne quella contro il Liverpool a Istanbul. Tre a zero per noi alla fine del primo tempo, quattro a tre per loro al triplice fischio. Un incubo. Lo buttai via» racconta con il cuore del tifoso appassionato di calcio, per metà rossonero e per metà granata. E ancora. C’è la toga d’avvocato dentro una vetrina di pregio che risplende di luce materna, della madre Irene  che gliene fece dono prima di essere strappata alla vita  da una malattia. E c’è il diploma di laurea in legge di papà Candido, custodito da una cornice dai profili di legno che ne mette in mostra la grazia dei caratteri tipografici. Ci sono, soprattutto, sulle mensole di una imponente libreria abitata da robusti volumi di diritto, le foto dei due figli adottivi,  Maria di 17 anni e Candido di 14, «il più grande dono che Dio ha fatto alla mia vita», nati in Russia e accuditi con amore insieme alla moglie magistrato Katia Cardillo.
Avvocato Iannuzzi, come nasce la sua passione (per la) politica?
«Nasce prestissimo e nell’ambiente familiare. Il merito è tutto di mio padre Candido, avvocato e sindaco democristiano di Valle dell’Angelo, che insieme a Salerno considero la mia terra. Negli anni a seguire, in particolare durante gli studi classici al liceo Tasso, ho vissuto la passione politica con la partecipazione alla vita della scuola sul piano delle battaglie ideali e successivamente con la frequentazione, non ancora maggiorenne, del gruppo moroteo della Dc, allora guidata dal parlamentare Nicola Lettieri».
Quando decide di impegnarsi in politica?
«A risultare risolutivo, ai fini del mio impegno diretto in politica, è stato l’incontro con monsignor Guido Terranova, calabrese di origine ma salernitano d’adozione. Un sacerdote di straordinaria cultura, preparazione e grande sostenitore dell’attivismo dei cattolici nella vita pubblica. Devo a lui la spinta decisiva».
Quale l’eredità immateriale di suo padre?
«La sacralità del rispetto della persona. Il rigoroso senso di responsabilità per i ruoli istituzionali. L’umiltà come baricentro dell’esistenza ma anche la consapevolezza delle proprie azioni come guida sicura all’impegno. L’ascolto del territorio e il confronto con la sua comunità di donne e uomini. La centralità del servire e il dovere di essere un riferimento di prossimità reale. Non è certamente un caso che il mio impegno politico sia nato proprio da Valle dell’Angelo, dove sono stato anche segretario della sezione Dc. A questa comunità, profondamente e sanamente popolare, animata da una cultura della migliore e più solida civiltà contadina, sono legato da un amore autentico».
Il partito avrà un ruolo centrale nella sua vita politica, a partire dalla militanza nella Dc.
«Il mio percorso politico è strettamente collegato alla partecipazione alla vita di partito e ai ruoli che nel partito ho avuto la responsabilità di ricoprire. Dopo essere stato segretario di sezione a Valle dell’Angelo, ho lavorato nella direzione provinciale ricoprendo in particolare il ruolo di responsabile della formazione. Mi sono impegnato a costruire relazioni stabili e una interlocuzione proficua  con l’Università e il mondo della cultura.  Ho ricoperto anche il ruolo di capo della segreteria politica di Bruno Ravera».
All’inizio della sua vita di partito, insieme al gruppo dei morotei aderirà alla cosiddetta Area Zac, guidata dall’allora segretario nazionale Dc Benigno Zaccagnini. Nella stessa area confluirà anche la sinistra di base che, al Sud, avrà come leader Ciriaco De Mita.
«Zaccagnini, da segretario nazionale, aveva guidato il rilancio e il rinnovamento della Dc e risultava amatissimo soprattutto dai giovani. L’adesione alla sua area, nella quale trovavano sintesi anime importanti del partito, avviene esattamente in questo contesto storico-politico e sulla base di una investitura di credito, entusiasmo e stima nei suoi confronti. Con De Mita ho avuto un rapporto autentico nato a margine di un congresso provinciale del partito».
Si ricorda cosa accadde quel giorno?
«Avevo poco più di venti anni.  Fui invitato a parlare  davanti a una platea di mille persone all’hotel Etap. De Mita, allora segretario nazionale del partito, era seduto al centro della sala.  Alla fine della giornata mi volle incontrare esprimendo apprezzamento per il mio intervento. Da quel momento il nostro rapporto, sul piano politico e umano, si è consolidato nel tempo anche se non sono mancate nella fase travagliata di costituzione del Partito Democratico incomprensioni e decisioni diverse, che ho vissuto con profondo dolore e che mi hanno fortemente provato, ma sempre con immenso rispetto per un politico che per tanti di noi è stato un maestro. Una figura  di elevata statura sul piano intellettuale, un formidabile elaboratore di pensiero politico e costruttore di classe dirigente».
L’assassinio di Aldo Moro, tra i fondatori e leader Dc, personalità di riferimento del gruppo politico con il quale muoverà i primi passi nella militanza politica, avviene quando lei è poco più che adolescente. 
«La sua morte mi segnò nel profondo. Non dimenticherò mai l’angoscia e il dolore per quegli interminabili cinquantacinque giorni di prigionia che porteranno dalla strage di via Fani, in cui venne rapito e persero la vita gli uomini della sua scorta, al ritrovamento del suo corpo esanime dentro il bagagliaio di una Renault rossa, in via Caetani. Da giovanissimo ebbi l’onore e la fortuna di incontrarlo e di quell’incontro custodisco un ricordo di inestimabile valore. Mi impressionò per l’eleganza, l’autorevolezza e il carisma. Per la solennità che accompagnava la sua figura unitamente a una dolcissima umanità».
Nel suo percorso politico, dopo la spinta iniziale di monsignor Terranova, quale il  punto di svolta?  
«Un passaggio fondamentale avviene nel 1987. Al culmine della sua carriera universitaria e del suo prestigio, il professore Vincenzo Buonocore, uno dei veri pochi grandi maestri dell’università italiana -per me il Professore per eccellenza ed il Rettore per e dell’eccellenza-  viene candidato nella Dc. Avevo sostenuto con lui l’esame di diritto privato, per cui il nostro rapporto era quello classico tra maestro e allievo. Buonocore, che non aveva mai fatto politica anche se suo padre, Luigi, era stato il primo sindaco della Salerno democratica del periodo repubblicano, mi volle vicino a lui in quella nuova esperienza. Fu, per me,  una grandissima investitura di stima oltre che una importante responsabilità che vissi con serietà, rigore e impegno. Al professore Buonocore sono  legato da un affetto profondo. E’ stato uno dei miei testimoni di nozze e mio padrino di cresima».
Il professore Buonocore è stato per lei un vero e proprio maestro.
«Assolutamente. Come lo è stato Arturo Budetta, sul piano giuridico, maestro di foro amministrativo, di deontologia professionale e di signorilità.  Un gentiluomo ma anche un avvocato di straordinaria acutezza e preparazione al quale devo tanti preziosi insegnamenti. Aveva la capacità immediata, nelle controversie più complicate e nei fascicoli con centinaia di documenti, di cogliere il punto decisivo su cui costruire la tesi processuale  difensiva e portare l’attenzione del giudice».
Cosa ha rappresentato la Dc nella sua vita?  
«Una grande scuola di formazione, di crescita umana e di educazione civile. Mi ha accompagnato nella “istruzione” politica fondata sul senso dello Stato e delle Istituzioni. La Democrazia cristiana, con tutti i limiti e gli errori che le si possono attribuire, è stata la più grande esperienza di libertà e di cultura di governo che il nostro paese abbia mai espresso».
Nel 1990 la sua prima elezione al consiglio comunale di Salerno.
«Mi candidai nelle liste della Democrazia cristiana prendendo duemila voti. Al ruolo di amministratore pubblico arrivavo dopo anni di impegno nel partito che mi avevano consentito di maturare una certa esperienza. Questo mi consentì di vivere la responsabilità del ruolo istituzionale con serietà, rigore, attenzione ma anche con la serenità di chi è consapevole di possedere gli strumenti necessari per affrontare un compito delicato al servizio dei cittadini».
Lei sarà consigliere comunale ininterrottamente fino al 2001. Nel 1992 lo tsunami tangentopoli che spazzerà via la Prima Repubblica e molti dei suoi protagonisti, compresa la giunta laica e di sinistra di Salerno guidata dal sindaco socialista Vincenzo Giordano. 
«Ho vissuto quella stagione con travaglio e dolore. Sicuramente esistevano elementi di illegalità e immoralità anche all’interno della Dc, così come ritengo ci siano stati eccessi ed  errori da parte dell’azione giudiziaria. Nel mio dna di avvocato è radicato il rispetto profondo per la funzione altissima della magistratura. Ancora oggi, però, abbiamo forme di azione giudiziaria che finiscono per esercitare una invasività nella attività di altri pubblici poteri».
L’azione amministrativa locale risente del rapporto troppo spesso poco sereno tra politica e giustizia.
«Il punto irrisolto, e da risolvere, riguarda la paura da parte dell’amministratore pubblico, che poi diventa vero e proprio terrore, della firma.  Si sono moltiplicati i meccanismi di controllo che, originati da esigenze condivisibili, rischiano di bloccare gran parte delle iniziative, a danno dei territori e delle comunità governate. La discrezionalità politica e la possibilità di scelta sono state quasi annullate e regna sovrano il timore di incappare nell’incubo dell’abuso di ufficio, di finire sul registro degli indagati, di essere gettati nel tritacarne dei media con aspetti che esulano finanche gli eventuali filoni d’inchiesta. E’ necessario riallargare il cerchio della discrezionalità politica e della possibilità di scelta degli amministratori e dei primi cittadini. Questo, naturalmente, con tutte le cautele e le garanzie del caso».
La stagione dei sindaci, che a Salerno coincide con l’inizio della straordinaria parabola amministrativa e politica di Vincenzo De Luca, ha inizio nel 1993 proprio come effetto collaterale delle inchieste di ‘Mani pulite’.
 «La stagione dei sindaci è stata una grande intuizione. Il sistema di governo dell’ordinamento locale era entrato profondamente in crisi. Le giunte cadevano e si riformavano in un attimo, non c’era respiro di governo ma esisteva un condizionamento tale da portare a una grande scadimento dell’azione amministrativa. L’elezione diretta dei sindaci ha portato complessivamente a un  migliore governo dei comuni del nostro paese».
Ad una maggiore stabilità dei governi locali corrisponderà la progressiva evanescenza del ruolo dei partiti e dei consiglieri comunali.
«I partiti non sono più le grandi centrali formative ed educative, di selezione e preparazione della classe dirigente. La politica, però,  ha il dovere di recuperare il rapporto con il territorio e con la sua gente. Per farlo ha bisogno dei partiti che, in tal senso, sono chiamati a trovare sedi luoghi e momenti in cui incontrarsi di nuovo per confrontarsi, recepire le istanze delle comunità, costruire relazioni di prossimità reale e, anche, per essere ‘strigliati’ dalle critiche».
Con la scomparsa dalla scena pubblica di Dc e Psi, lei aderirà al Partito popolare – del quale sarà il primo segretario della provincia di Salerno – alla Margherita e al Partito democratico, nel quale ricoprirà  il ruolo di  segretario regionale in Campania.  
«Con umiltà e orgoglio posso affermare di non avere mai mutato la mia corrente di ispirazione politica: quella della sinistra morotea e democristiana che ha sempre affermato e percorso la strada del dialogo dei cattolici democratici con la sinistra riformista, europea, popolare e democratica. Da qui la mia attuale vicinanza politica a Dario Franceschini, personalità politica di grande cultura e spessore che si è formata nella sinistra dc e proviene dall’area Zaccagnini».
Nel 2001 l’elezione alla Camera dei deputati: la prima di quattro legislature consecutive.
«Non potrò mai dimenticare l’emozione del primo  giorno a Montecitorio. Mi tremavano le gambe e avevo le lacrime agli occhi. Ero coinvolto emotivamente in modo particolare per il ricordo di mia madre, che aveva fatto tanti sacrifici per me e che una brutta malattia l’aveva strappata prematuramente alla vita».
Cosa ha significato, a soli quarant’anni, essere un ‘onorevole’?
«Il titolo di onorevole non è un fregio, una medaglietta, una ragione di ostentazione, uno strumento per ricercare privilegi o peggio ancora per esercitare comportamenti disadorni. E’ un onore ma anche un onere enorme che ti impone di osservare, nella vita pubblica ma anche in quella privata, un comportamento onorevole. Degno di questo nome. Un parlamentare della Repubblica italiana deve essere riferimento alto, nell’azione e nei sentimenti che muovono e ispirano la sua attività, per tutti gli italiani e non solo per coloro i quali lo hanno votato.  Deve essere dentro la vita delle comunità e costruire relazioni umane di prossimità reale sul territorio. Personalmente,  ho sempre inteso così il mandato parlamentare. Non lo dico per fregiarmi di un merito ma per sottolineare l’assorbimento di quello che ho considerato un mio dovere».
Oggi la politica, specie quella dei palazzi romani, viene considerata lontana dai territori e dai problemi delle sue donne e dei suoi uomini.
«E’ necessario avere rappresentanti del popolo, a tutti i livelli, che conoscano e siano capaci di occuparsi dei problemi del territorio. Non bisogna mai fare battaglie localistiche che rischiano di essere percepite esclusivamente come tali e, di conseguenza, ‘strozzate’ sul nascere. Bisogna avere la capacità e l’intelligenza politica di proiettare le esigenze delle proprie comunità di riferimento in una dimensione nazionale. Nella mia esperienza parlamentare mi sono battuto esattamente nel solco di questo principio sul tema delle infrastrutture in generale, per l’autostrada Salerno Reggio e per l’ammodernamento della rete ferroviaria, per la Facoltà di Medicina dell’Università di Salerno. Ho trasmesso al governo l’urgenza e l’importanza di intervenire su questi temi perché rappresentavano delle priorità per il Mezzogiorno e quindi per l’intero sistema Paese».
Ha rimpianti?
«La battaglia sui piccoli comuni con la proposta di legge firmata insieme ad Ermete Realacci che prevedeva il sostegno e la valorizzazione dei centri con popolazione pari o inferiore a 5mila abitanti.  Durante la legislatura terminata nel 2017 ne abbiamo ottenuto solo l’approvazione alla Camera. Mancava quella del  Senato. In questa ultima legislatura tutto ciò che avevamo immaginato non è stato pienamente realizzato».
Dopo la Prima e la Seconda Repubblica ecco la Terza: selezione dei parlamentari con pochi click sul web e il must ‘Uno vale uno’. Siamo nell’era dei Cinque Stelle.
«Un principio sbagliato che vale sicuramente per il riconoscimento delle libertà e dei diritti democratici di tutti i cittadini. Ma non si può diventare parlamentari in maniera improvvisata e contingente né tanto meno uomini di governo. Innovare la politica non vuol dire approssimazione e rifiuto dell’esperienza, affermazione di profili evanescenti e di una nuova classe dirigente purché sia nuova. I cittadini chiedono competenza e professionalità, conoscenza profonda della vita dei territori. Oggi è questa la vera innovazione. La stagione dell’improvvisazione è superata».
Time out per il partito di Grillo?
«Quando un movimento arriva a prendere il 33 per cento alle elezioni merita il massimo del rispetto. Il voto del popolo è sempre sovrano ed è dovere di chi ha perso interrogarsi sulle ragioni della propria sconfitta. Detto questo, l’implosione che oggi si registra nei Cinque Stelle è esattamente il frutto dell’insostenibilità di quella logica».
Grandi manovre per il Grande Centro in vista delle prossime elezioni per la guida del Paese.
«Per ora vedo molte piccole formazioni guidate da  leader che vogliono rimanere tali. Mi sembrano litigiosi e poco convincenti. Registro una grande difficoltà di sintesi».
E il Partito democratico?
«Il Partito democratico deve esprimere con forza la sua richiesta di leadership,  nell’area di un centrosinistra riformista ed europeo,  sottoponendola naturalmente al giudizio degli elettori. Ognuno faccia la propria parte ma noi non possiamo non avere l’ambizione  di guardare con uno  sguardo complessivo all’intera comunità nazionale».
Quali le priorità per vincere questa sfida?  
«Il Partito democratico  deve avere la capacità di parlare e rappresentare mondi diversificati.  Deve dare riferimenti e voce nella propria azione politica a tutto quel mondo, definito di centro, che vuole una politica equilibrata, temperata, moderata, capace di comporre i conflitti e  unire il Paese. Deve avere inevitabilmente, al suo interno, anime diverse: dalla grande tradizione  del mondo cattolico a quella della sinistra riformista, dalla tradizione  ambientale-ecologista a quella laica. Deve avere dentro anche i nuovi afflati di partecipazione che sfuggono alla catalogazione tradizionale. Dobbiamo costruire un partito che sia una grande comunità. Attento al mondo delle  partite iva, che non è più soltanto quello tradizionale dei professionisti. Penso ai lavoratori atipici, che sono il frutto di questa stagione odiosa di precarietà, ai commercianti e agli artigiani, ai piccoli imprenditori. Il Partito democratico deve essere protagonista e animatore di alcune battaglie unificanti: sostenibilità ambientale, ammodernamento tecnologico,  transizione ecologica, infrastrutture materiali e immateriali,  rilancio delle autonomie locali. Soprattutto deve avere una attenzione specifica alla drammaticità della condizione sociale ed economica del Mezzogiorno. Da questo punto di vista deve essere la forza politica che parla e dà speranza al Sud».
E’ pronto a scendere in campo nel 2023?
«Vedremo. Per ora sono assorbito dalla mia attività forense nel settore amministrativistico e dall’attività universitaria.  Sul piano politico continuo a lavorare per il bene del partito nella direzione nazionale. Un impegno che vivo con la passione e l’amore di sempre».