di Peppe Rinaldi
C’è un’inchiesta della procura di Nocera Inferiore sui rimborsi Asl ai centri accreditati per alcune terapie riabilitative effettuate in favore di pazienti risultati deceduti. Un classico delle truffe. Ne ha scritto abbastanza diffusamente il quotidiano “La Città” per mano di un giornalista pratico della materia e di lunga esperienza come Salvatore De Napoli. Un lavoro interessante, purtroppo poco reiterato, che ha suscitato curiosità: non capita tutti i giorni (eufemismo) di leggere inchieste giornalistiche “vecchio stampo” sui media, ciascuno sempre più fotocopia di una fotocopia dell’altro, digitale o non digitale. Bene. Siamo così andati a vedere o, meglio, abbiamo provato a farlo, per capire cosa stesse accadendo in un ambito – quello della mala gestio nel mondo della sanità – del quale questo giornale s’è occupato a lungo per vicende più o meno analoghe, e non solo. Conferme a quanto già scritto dalla Città ce ne sono state, così come, a un tempo, emergerebbero dettagli e argomenti “scoperti” nella ricostruzione del percorso investigativo.
La vicenda delle terapie erogate a pazienti deceduti si è indirizzata, fino ad oggi, verso l’analisi delle responsabilità in capo alle strutture accreditate. Corretto, sebbene non esaustivo del problema.
La procedura burocratica per l’accesso al servizio con circa 50 passaggi formali è stata già qui denunciata (vedi Le Cronache del 13 maggio) e sembrerebbe essere, come vedremo, il vero cuore del problema di questa indagine, al netto delle singole responsabilità penali che sono sempre personali a valle di un giusto processo etc etc.
In parole povere, il ragionamento è il seguente: se è vero, com’è vero, che in alcuni casi, peraltro anche già individuati, sono state fatturate e pagate prestazioni risultate poi fasulle perché i pazienti erano morti, discenderà da ciò una diretta responsabilità degli uffici pubblici che hanno autorizzato i trattamenti, cioè, gira e rigira, dell’Asl stessa. Dettaglio inosservato sinora ma, a quanto risulta a Le Cronache, in fase di approfondimento. E’ l’articolazione territoriale (leggi: il distretto sanitario) che autorizza la prestazione dopo la richiesta di un medico di base riscontrata dall’omologo pubblico, cioè l’incaricato dell’Asl della verifica del percorso terapeutico del paziente. Proprio leggendo il mastodontico regolamento adottato dall’azienda di Salerno si osserva che, da anni, i distretti autorizzano l’accesso alle prestazioni riabilitative e sociosanitarie. Ci si chiede: ma se è vero che l’Asl Salerno è caratterizzata da liste di attesa infinite anche in questo settore, quale interesse avrebbe una struttura ad erogare prestazioni a un defunto (in maniera illegittima) laddove potrebbe (legittimamente) trattare altri pazienti in attesa? C’è dunque qualcosa che non torna, probabilmente si tratta di qualcosa che sfugge, almeno per il momento, alla cognizione della cronaca.
Si sa che la Regione Campania per determinare le tariffe da pagare ai centri accreditati e, quindi, per orientarle verso valori più bassi, tiene conto di un organico del personale che sia formato per il 72% da dipendenti e dal 28% da consulenti, in linea teorica meno onerosi. In pratica, i centri erogano prestazioni utilizzando anche forza lavoro libero-professionale. I consulenti hanno tutto l’interesse a fatturare il maggior numero di prestazioni perché il loro compenso è parametrato sul lavoro effettivamente erogato (nel loro caso, le liste di attesa non incidono perché, proprio in quanto consulenti, trattano direttamente un’utenza propria). Nel caso di attività domiciliari sulle quali la struttura ha minori occasioni di controllo (è il terapista a recarsi al domicilio), può accadere che un consulente fatturi anche un numero di prestazioni che poi risultano non erogate proprio per la circostanza dell’intervenuto decesso. In questo caso la struttura accreditata non riceve alcuna segnalazione perché, per ragioni legate alla tutela della privacy, non ha il diritto di consultare gli aggiornamenti anagrafici, né i familiari sono tenuti a trasmettere informazione sul decesso. Sicuramente c’è una sorta di “culpa in vigilando” da parte delle strutture sanitarie, che vengono trascinate nel presunto circuito illegale per ragioni riconducibili al principio della responsabilità oggettiva che è, però, discorso diverso dal perseguimento di un disegno criminoso come si legge nell’incipit di ogni comunicazione giudiziaria.
Quindi, nel ricostruire la filiera degli attori di questa vicenda sembrerebbero emergere più livelli di (ipotetica) responsabilità: si parte dal terapista, si continua con quella di chi ha attestato l’avvenuta erogazione delle terapie (sempre che la firma non sia falsa) ma non senza passare dai pubblici uffici in capo ai quali pende ineludibile l’obbligo di un accertamento preventivo della regolarità; infine si giunge alla struttura riabilitativa. Risulta a Le Cronache che in alcuni casi sono state depositate denunce nei confronti dei terapisti stessi da parte delle strutture, con restituzione all’Asl delle somme incassate per le terapie non erogate.
Per comprendere meglio il fatto che nell’indagine, per quanto sia stato possibile saperne, manchi il passaggio centrale relativo alle dinamiche operative e concrete del committente, cioè i distretti sanitari, basti l’episodio, giustamente evidenziato anche dall’inchiesta della Città, della paziente che non solo avrebbe ricevuto trattamenti terapeutici anche dopo il decesso e fino al termine del progetto riabilitativo ma, fatto sconcertante, anche dopo la sua morte con il supporto di un nuovo progetto riabilitativo. La domanda ritorna, a questo punto: chi ha autorizzato un nuovo progetto riabilitativo a una persona ormai già defunta da tempo? Se i progetti riabilitativi sono autorizzati esclusivamente dal distretto sanitario all’esito di una visita del paziente, questa stessa visita come quando e da chi è stata effettuata? Sempre il famoso regolamento Asl con le decine e decine di prescrizioni per il paziente, stabilisce che l’utente sia visitato nell’ambito di una commissione specifica del distretto, nella cui sede deve poi fare più volte ritorno per il completamento dell’iter burocratico. Chi conosce il meccanismo che regola questo universo sa bene che, alla luce dei fatti, viene da chiedersi: chi è stato visitato, chi è andato a definire la pratica, con chi si è confrontato il distretto sanitario e a chi ha consegnato l’autorizzazione al trattamento e alla relativa spesa? Non basta: le strutture accreditate, per essere pagate per il servizio svolto per conto del Ssr, sono obbligate a presentare documentazione sulle prestazioni erogate e sui riferimenti degli assistiti. Di qui derivano ulteriori domande e conclusive: perché i distretti sanitari non hanno valutato la coerenza dei dati anagrafici con gli elenchi (periodicamente aggiornati) dei propri cittadini assistiti? Costava troppo lavoro, troppa fatica?