Di Federico Sanguineti
Il film «Rapito» del regista ottantatreenne Marco Bellocchio, presentato a Cannes il 23 maggio 2023, ha per oggetto un avvenimento fonte di ispirazione per più di un’opera d’arte: si pensi al dipinto del 1862 di Moritz Daniel Oppenheim intitolato «Il rapimento di Edgardo Mortara», conservato in una collezione privata negli Stati Uniti. Ma fin dal 1859, alla presenza di Napoleone III e dell’imperatrice Eugenia, va in scena a Parigi un’opera teatrale in cinque atti e un prologo, «La tireuse de cartes», che Victor Séjour ambienta a Genova nel 1745 e dove ad essere rapita è fantasiosamente, come suggerisce il titolo, la figlia di una chiromante. Venendo a tempi recentissimi, mentre Steven Spielberg rinuncia al progettato film «The Kidnapping of Edgardo Mortara», nel 2022 Stefano Pesce mette in scena a Bologna lo spettacolo «Una Cronaca Cittadina». Quindi, basandosi sul «caso Mortara» di Daniele Scalise, con attrici e attori fuori dal comune, Bellocchio porta a termine una pellicola su cui ci si sofferma qui non indossando la veste di critico cinematografico (lungi da chi scrive tale ambizione), ma restando in quella di puro e semplice spettatore che, se è ammissibile il gioco di parole, dal film egli stesso «rapito», non può fare a meno di rivederlo più volte. Ma perché tanto entusiasmo, al punto da pensare che si tratti di un’opera d’arte da porre a confronto direttamente con Eschilo e Shakespeare? La ragione è semplice: il regista vede la storia in un modo del tutto inedito. L’ottica è, dall’inizio alla fine, quella del ragazzino stesso, rapito dal mondo che lo circonda. Non è più la tragedia di un adulto appartenente a una classe sociale dominante (come accade ancora, per esempio, in Eschilo e Shakespeare), ma quella infantile di chi appartiene a un gruppo oppresso: nella fattispecie una comunità, quella ebraica, materialmente e spiritualmente soggetta a un potere a lei ostile. Occorre pertanto ammettere che nessuna opera d’arte ha mai scavato in profondità fino a questo punto, rinunciando oltretutto a qualsiasi punto di vista ideologico. In modo imparziale, a ogni rito ebraico si accompagna, sullo schermo, una funzione cristiana (e viceversa). Ebraico e latino sono lingue poste sullo stesso piano. Come un rabbino qualsiasi, Pio IX è rispecchiato nella sua integrale, storica e umana, fragilità. E non c’è chi si salvi: basti pensare al padre di Edgardo che, conclusosi il processo, si colpisce violentemente la testa, esplodendo in un urlo di disperazione. Neppure la più significativa data nazionale, 20 settembre 1870, è risparmiata: la breccia di Porta Pia si risolve in un’esplosione di fumo che travolge lo schermo sbiancandolo totalmente. Fatta dunque tabula rasa di ogni mistificazione, il conflitto che divide Riccardo ed Edgardo assurge a simbolo del tratto essenziale della storia d’Italia: quello (direbbe Umberto Saba) di un popolo fratricida. Se è lecito un paragone, mentre la storia coi «se» dell’adulto Nanni Moretti si rivela puerile («Il Sol dell’avvenire»), lo sguardo infantile di chi sogna di liberare Gesù dalla croce è realisticamente sublime («Rapito»). Un bel film, dunque? Di più. Un film allegorico? No. A dirla nei termini chiariti nella trentottesima delle «Maximen und Reflexionen» di Goethe, Bellocchio non fa del protagonista un’allegoria, ma lo afferra al vivo come rivelazione istantanea dell’inesplorabile ‒ si pensi alla scena dell’incontro di Edgardo con la madre morente ‒, sicché si entra al cinema in un modo e se ne esce finalmente in un altro: è la forma attuale della «catarsi» tragica. Sconvolgente.