Di Olga Chieffi
In attesa della ripresa della stagione lirica, il 25 ottobre con la Bohème, con il più intenso bacio alla vita che sarà lanciato da Maria Agresta dal palcoscenico del suo teatro Verdi, l’allestimento del cartellone 2016 pare già concluso. Due i titoli verdiani con “Ernani”, opera risorgimentale, col suo famoso coro “Si ridesti il leon di Castiglia!”, ove sotto le spoglie dei congiurati evocati dal coro e la bellissima cabaletta di Ernani “Della vendetta bello è il morire”, si riconosceva il popolo italiano oppresso, ed ancora lo Shakepeariano “Macbeth”, simbolo del potere distruttivo, dell’ ambizione che non conosce limiti e della più feroce malvagità, elementi al centro dell’opera più oscura del cigno di Busseto, titolo che manca dal massimo cittadino dal 2006, quando fu rappresentata con la indovinata regia di Elena Barbalich. Ritorna Giacomo Puccini con due amatissimi titoli, Madame Butterfly, quel ponte tra Oriente ed Occidente, volutamente esotica, una tragedia, consumata ai danni di un’ingenua giapponesina, perfida, sadica, una violenza carnale con la tecnica della civiltà, dove la barbarie non è riconoscibile facilmente, perché rovesciata nei suoi termini, che si regge sull’inganno, e che mette in rapporto strettissimo la musica occidentale del tardo Ottocento (brani d’uso e dotti, dall’inno degli Stati Uniti al Tristano di Wagner, al ben noto Massenet, a reminiscenze di Bohème e Tosca), con richiami alla tradizione giapponese, gremita di scale pentatoniche e la Tosca, titoli popolarissimi sul quale la direzione del Massimo ha sempre puntato.Tosca può essere definita l’opera culminante di Puccini nel senso dell’avanzamento del linguaggio. L’orchestra si mette a descrivere come per appunti, abbastanza in fretta, ma con una osservazione scrupolosa del vero; nel mezzo di tanto lavorio smette di ciarlare e improvvisamente si gonfia, singhiozza o minaccia, insulta o prega. Lo spettatore, preso di petto, non ha il tempo di riaversi dalla sorpresa, che Puccini implacabile e, inguaribile ruffiano, asciuga il pianto, in poche battute riprende perfino a sorridere, intanto pennella e ritocca. Ancora Novecento, per chiudere il 2016, con un’altra gemma italiana che guarda all’Europa, l’Adriana Lecouvreur di Francesco Cilea, una partitura che è un profumato reticolo di delicati equilibri armonici, pur se influenzata dalla lezione wagneriana, che risente delle complesse suggestioni che circolavano all’epoca in Europa: il flou impressionista di Debussy, decadenze alla Massenet, esotismi pucciniani. Titoli, questi che andranno ad impreziosire la programmazione del nostro teatro, che possono essere posti in cantiere solo con una sicurezza economica che il nostro governatore melomane Vincenzo De Luca non farà certo mancare al suo teatro Verdi, tanto che siamo in grado di offrire ai nostri lettori anche le intenzioni della direzione artistica per il 2017. Verdi protagonista con altri due titoli di grande peso quali il Rigoletto, un’opera piena di vita ma colma di ferite, di piaghe segrete che sono di certo anche quelle di Verdi stesso: lavorando sulla malinconia del personaggio di Rigoletto piuttosto che sulla sua arroganza, sulla sua fragilità segreta piuttosto che sul suo astio scoperto, si sente ciò che Verdi vi ha proiettato di sé stesso, l’abisso pronto ad aprirsi improvvisamente sotto i piedi e le contorsioni della sua coscienza per restare in piedi o integro e La forza del destino, titolo attesissimo dal pubblico salernitano, ma mai realizzato per la sua enorme difficoltà, un’opera sperimentale e di crisi, cresciuta nella mente di Verdi come un laboratorio di ricerca, simbolo dell’ “ironia tragica”, piena di incongruenze logiche e di assurde concordanze, anarchica e pluralistica, frantumata negli episodi, nei tempi e nei luoghi, nell’azione beffardamente incurante di principi unitari e di regole aristoteliche. C’è intenzione in questa scelta di far crescere, finalmente, l’uditorio del teatro Verdi (aspettando Wagner), con altri due prestigiosi titoli, quali La damnation de Faust di Hector Berlioz, e il suo mefitico Mefistofele, grande burattinaio il quale, dopo aver dato origine con le sue magie all’amore tra Faust e Margherita, aver imbrogliato Faust con una bugia degna più di un teppista che di un genio del male, addirittura si fa garante – da tipico uomo d’onore – della salvezza della giovane e della sua ascesa in cielo e Les Contes d’Hoffmann di Jacques Offenbach, musica singolare e quasi onomatopeica con il ticchettio meccanico della bambola nell’accompagnamento in orchestra dell’arpa, flauto e pizzicati, le intenzioni diaboliche ogni volta che appare una delle quattro manifestazioni del male, per un’opera misteriosa sin dalla sua creazione.
Olga Chieffi