di Rino Mele
Continuo a parlarne: non è grave mostrare sconcerto, per l’avvicinarsi della fine della propria attività politica ma lo è paragonare l’insopportabile rammarico all’uccisione violenta di uno degli uomini migliori, per purezza e intelligenza, della nostra recente storia, Aldo Moro, straziato dalla violenza terrorista, uno dei padri della nostra difficile patria. Paragonare se stesso a qualcuno significa identificarsi. E questa specularità con il volto di Moro, tentata dal presidente della nostra regione, De Luca, è inaccettabile. Quali sono state le parole che ha detto pochi giorni fa, venerdì 18 ottobre, in risposta a Elly Schlein quando gli ha ricordato che “nessuno è indispensabile, nessuno è eterno”?
Consapevole dell’enormità di ciò che sta per dire, De Luca fa una breve premessa (“Parliamo di cose ovviamente più importanti delle nostre piccole persone”), poi si slancia subito nel vuoto, come un vecchio acrobata dal suo incerto trapezio: “Uno come Moro era indispensabile, nella situazione data e per quello che rappresentava. L’uccisione di Moro ha determinato il blocco di un processo politico di valore straordinario. Credo che nessuno direbbe ad una personalità come Moro che nessuno è indispensabile, eterno”. Così, pur scusandosi nella premessa, affronta l’impossibile paragone e l’identificazione che ne segue.
Ma, ricordiamo come avvenne la fine di Aldo Moro, quest’uomo luminoso. Fu il 16 marzo 1978, il giorno in cui fu votato alla Camera il nuovo governo presieduto da Giulio Andreotti, ed era stato proprio Moro, a indicare Andreotti, rifiutando per sé quel supremo incarico: era stato proprio Aldo Moro presidente della Democrazia Cristiana (il segretario era allora Zaccagnini, uomo di punta della sua corrente) a volere che diventasse Presidente del Consiglio Andreotti che pure nutriva dubbi sull’apertura politica ai comunisti: e Moro lo fece per rafforzare il governo – con la presenza al suo vertice di uno che non ne era entusiasta – rinunziando spontaneamente a essere lui a guidarlo. Ma non vide la nascita di quel governo: quella mattina, il 16 marzo, avvenne la strage della scorta di Moro a via Fani e in quel sangue il ludibrio della sua violenta cattura: nel centro di Roma, mentre andava in Parlamento, come in una cupa strage di caccia, lui innocente preda.
Poche ore dopo, il governo otteneva alla Camera (presidente Pietro Ingrao) la fiducia, per la prima volta senza opposizione: un monocolore democristiano con l’astensione di quasi tutti i partiti, compreso il P.C.I di Berlinguer. Solo 30 i contrari. Così anche al Senato, presieduto da Amintore Fanfani. Nasceva il quarto Governo Andreotti, mentre nel fondo di una cassa, dopo alcuni passaggi, era trasportato in un furgone. Moro prigioniero finì in una strettissima cella a penare la sua attesa di morte.
Quarantadue giorni dopo, il 27 aprile, lui scrive una lettera “al Partito della Democrazia Cristiana” che dai brigatisti viene fatta trovare ai collaboratori di Moro che la consegnano al “Messaggero” da cui, il 29 aprile, verrà pubblicata. Una lunga interessantissima lettera, di lungimirante sdegno: “E’ la mia condanna a morte, sostanzialmente avallata dalla D. C.“ (Moro scrive “avvallata”, nel delirio della prigione, seduto su una branda, coi fogli tenuti sulle ginocchia) “la quale, arroccata sui suoi indiscutibili principi, nulla fa per evitare che un uomo , chiunque egli sia, ma poi un suo esponente di prestigio, un militante fedele, sia condotto a morte”.
Continua parlando del suo dolore per l’irriconoscente e irriconoscibile Democrazia Cristiana: ed è la parte della lettera che c’interessa per mostrare l’assurdità del paragone tentato dal presidente della Campania. Moro, scrivendo di sé, dice: “Un uomo che aveva chiuso la sua carriera con la sincera rinuncia a presiedere il governo, ed è stato letteralmente strappato da Zaccagnini (e dai suoi amici tanto abilmente calcolatori) dal suo posto di pura riflessione e di studio per assumere l’equivoca veste di Presidente del Partito, per il quale non esisteva un adeguato ufficio nel contesto di Piazza del Gesù”. Ecco chi era Moro: un uomo luminoso che rinunziava al potere e non lo cercava. Per questo, il paragone e l’identificazione tentati da De Luca sono uno scandalo.
La Renault 4, con il corpo di Moro, trovata a via Caetani nel centro di Roma a poche centinaia di metri da Piazza del Gesù e via delle Botteghe Oscure, il 9 maggio