di Simone Di Meo
Da quest’oggi, per 4 puntate, «Cronache del Salernitano» si occuperà di una delle più imponenti (e discusse) inchieste antimafia della storia repubblicana. Un fascicolo che punta a riscrivere, con i ricordi sbiaditi dei collaboratori di giustizia e le ricostruzioni giudiziarie di atti ormai lontani nel tempo, gli ultimi trent’anni italiani. Quelli che, ancora oggi, viviamo per come sarebbero nati dal presunto accordo tra Stato e mafia tra il 1992 e il 1993. Lo faremo da una visuale particolare che riguarda anche Salerno. Che cosa c’entra Salerno? Qualcosina di interessante c’è, almeno a leggere le centinaia di migliaia di pagine del procedimento in corso a Palermo che vede imputati boss del calibro di Totò Riina e Leoluca Bagarella, uomini delle istituzioni come Nicola Mancino e Calogero Mannino, e veri e propri cacciatori di mafiosi come l’ex capo del Sisde Mario Mori (che della cattura di Riina è stato artefice, ai tempi del Ros, insieme al capitano Ultimo) e Giuseppe De Donno, suo storico «braccio destro». Tutta l’inchiesta ruota attorno a una ipotesi fondamentale: durante la strategia del terrore scatenata dai Corleonesi prima con gli omicidi di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino e poi con gli attentati di Roma, Milano e Firenze, lo Stato avrebbe offerto ai mafiosi un patto: allentare o revocare il regime di carcere duro per i padrini detenuti in cambio della cessazione di attentati e agguati. E, tra i boss che da un giorno all’altro si sarebbero visti «graziare» dal ministero della Giustizia, ce ne sono anche alcuni del Salernitano. Quattro per la precisione. Nomi di «peso» nello scacchiere criminale del capoluogo che sono finiti all’attenzione dei pm Antonino Ingroia e Nino Di Matteo nella fase preliminare delle indagini sulla Trattativa. Nomi sui quali la Dia di Salerno ha indagato. «Cronache del Salernitano» vi racconterà chi sono. Di ciascuno, ripercorreremo la storia e gli sviluppi processuali che s’intrecciano con il procedimento palermitano, cercando di cogliere – laddove possibile – gli eventuali collegamenti tra la criminalità organizzata locale e quella, molto più potente, di Cosa nostra. Ma cominciamo subito. Nell’elenco dei 334 soggetti di massima pericolosità a cui, sul finire del 1993, non fu rinnovato il regime penitenziario di alta sorveglianza, previsto dal 41bis, compare anche il boss di Eboli Pietro Del Vecchio. Le prime notizie su di lui risalgono al dicembre 1989 quando, appena venticinquenne, viene arrestato a Crescentino dalla Squadra mobile di Vercelli mentre è in auto con un amico, Carmine N. All’epoca, Del Vecchio è accusato di concorso in omicidio pluriaggravato. Secondo le accuse degli inquirenti, aveva fatto parte del «gruppo di fuoco» che, pochi mesi prima, aveva ammazzato a Salerno l’affiliato cutoliano Albino Landi. Tre anni dopo, finisce nuovamente in manette nella maxi-retata che decapita il clan Maiale di cui è diventato uno dei più giovani (e spietati) componenti. Lo accusano di aver fatto parte delle «paranze» di estorsori che rastrellano ditte, locali, negozi e piccole imprese a Natale, Pasqua e Ferragosto, ma in realtà il suo ruolo – nell’organigramma mafioso ebolitano – è diverso: per i pm, Del Vecchio è uno dei killer al soldo del clan. Come dimostrerà l’inchiesta che, nel marzo 1994, lo coinvolgerà insieme ad altri esponenti della cosca dei Maiale e della Nuova famiglia di Carmine Alfieri. Tutti ritenuti responsabili del triplice omicidio di Marcello Montagna, Salvatore Monti e Nicola Lano, affiliati al clan di Mario Pepe, avvenuto l’8 febbraio del ’91. Una strage maturata nell’ambito della lotta tra Alfieri e Pepe per il controllo dell’agro-nocerino-sarnese, e rivelata da tre pentiti di peso: Pasquale Galasso, lo stesso Mario Pepe e Cosimo Marotta. Di lì a poco, anche Del Vecchio passerà a collaborare con la giustizia raccontando venti anni di orrore nella provincia di Salerno. Rendendosi, peraltro, protagonista di una clamorosa azione di protesta nei confronti degli organismi giudiziari. Correva l’anno 1996 e Pietro Del Vecchio firmò, insieme ad altri collaboratori di giustizia, una lettera di fuoco indirizzata alla Dda di Salerno per denunciare di essere stati «truffati» dallo Stato. «Non comprendiamo l’assurdo trattamento che ci viene costantemente riservato nel grado di Appello calpestando, oltre i nostri sacrostanti diritti di difesa, la legge stessa che non si vuole applicare», scrivevano gli ex boss sottolineando la propria «lealtà» di comportamento malgrado difficoltà e sacrifici che avevano anche comportato di «esporre i propri familiari a gravi rischi e costringendoli a vivere in paesi sconosciuti, come esuli». I collaboratori denunciavano il rischio che con il cumulo delle pene definitive diventasse tale da non poter ottenere un trattamento «extracarcerario» e così «inserirsi nella società come avevano promesso – scrivevano – alle nostre famiglie nel momento in cui è maturata in noi la scelta di collaborare e di chiudere con il passato». Per concludere: «Se questo è l’orientamento dello Stato, allora siamo stati letteralmente truffati». Così la pensava l’uomo che, il 24 novembre 1993, non si era visto più applicare il regime del carcere duro in virtù, ritengono i pm di Palermo, di un patto scellerato tra Cosa nostra e Stato. (1.continua – la prossima puntata sarà pubblicata domenica 9 marzo)