Delusione, dopo la grande attesa, per la seconda rappresentazione dell’opera belliniana, sul palcoscenico del teatro San Carlo, che si è retta sul carisma e l’esperienza del soprano napoletano Anna Pirozzi, sulla Adalgisa, del mezzosoprano Ekaterina Gubanova. Spettacolo da vedere soprattutto in buca con la danza sul podio di Lorenzo Passerini, regia incolore di Justin Way
Di Olga Chieffi
Sono andate deluse le grandi attese del pubblico del teatro napoletano di San Carlo che, nella sua storia, ha salutato grandissimi cast e registi, riposte in questa Norma che, alla presentazione del cartellone, ha schierato un cast stellare capeggiato da Anna Pirozzi nel ruolo della sacerdotessa dei druidi, una voce che vanta tanti numeri e su tutti quella piena e carismatica di una eroina guerriera e per di più innamorata, quale è la protagonista belliniana. Norma è un personaggio che vive in modo rappresentativo lo scisma belliniano, in quanto l’esplosione della novella potenzialità lirica è chiamata a collaudarsi entro gli argini contegnosi d’una vera e propria ossatura vieux style e, per coinvolgere a pieno il pubblico, ha bisogno di rivivere in voci straordinarie e complete. Poche opere, infatti, nel paesaggio del nascente melodramma borghese riescono, al pari di questa, a registrare l’ossequio ad una formula e, insieme, il suo rovesciamento per il tramite della dilatazione melodica, del canto lunare fuoriuscente di continuo dalla morsa del tempo ordinario. Unanimi consensi ha riscosso, il mezzosoprano Ekaterina Gubanova, pregnante interprete del ruolo di Adalgisa, artista di coscienza, preparazione , intelligenza, autodisciplina superiori, che l’hanno portata ad impreziosire, in particolare i pezzi d’assieme. In questa Norma, lo spettacolo nello spettacolo è risultato Lorenzo Passerini, giovane direttore allievo di Pietro Mianiti e assistente di Oleg Caetani, una danza convulsa la sua che lo ha portato a non poche incomprensioni con i cantanti, in particolare al momento delle agilità, che i due protagonisti, tendevano a rallentare: la Anna Pirozzi, poiché ormai abituata ad un repertorio che spazia da Verdi a Puccini, Freddie De Tommaso parimenti, il quale ha debuttato il ruolo di Pollione, con vocali spalmate e aperte. Il tenore non ha fatto intravvedere e immaginare i tratti essenziali che abbisognano al ruolo, ma, in compenso, ha rivelato tutti quelli utili ad alimentare quella sana e divertente ironia che, in ambiente musicale, fiorisce sui vizi dei tenori. A completare il cast, splendida prova di Veronica Martini, che ha dato voce a Clotilde e il dignitoso Flavio di Giorgi Guliashvili, mentre l’Oroveso di Alexander Tsymbalyuk è venuto fuori solo nel finale. Lorenzo Passerini, che non ha staccato gli occhi dalla partitura, con in mente tempi totalmente diversi a quelli dei cantanti, che dobbiamo pur dire hanno fatto ciò che hanno voluto, in palcoscenico, non ha tentato di cesellare alcun pezzo, quelle piccole parti dell’intera opera, che andrebbero tutte citate. Bellini, purtroppo, non ha trovato in lui chi sappia attuare in coerenza estetica ogni sua più riposta invenzione. Riguardo l’orchestra in Norma non si può tacere del primo flauto Silvia Bellio, il quale si è ben elevato nell’introduzione dell’attesa Casta Diva, del primo oboe Hernan Gareffa, con al suo fianco Andrea Marotta e del primo clarinetto, con gli impeccabili Franco Cardaropoli e Pasquale Bardaro ai piatti e alla cassa, a sottolineare i momenti di concitazione,che unitamente al coro, preparato da Fabrizio Cassi, hanno prodotto quasi completamente l’intenzione artistica di Passerini, venuta allo scoperto nei momenti lirici e nel finale, creando colori a volte infungibili, validi solo per l’ethos di questa partitura. I teneri abbandoni e astringenti accenti d’energia che si sono alternati, grazie unicamente all’iniziativa dei capisezione, a cominciare dal primo violoncello di Alberto Senatore, un trascinatore per l’incipit del secondo atto, o di Gabriele Pieranunzi, konzertmeister d’eccezione, sono riusciti, in parte, a diradare quel malcostume melodrammatico di cui, purtroppo l’ opera è intrisa, riuscendo ad ottenere dei pianissimo, richiesti “con scenica scienza” dal direttore per non soverchiare quel perfetto microcosmo creato dalle voci femminili. Menzione anche per la banda di palcoscenico. Non si può negare, però, che questa è un’opera scritta in modo da esasperare il culto del divismo canoro e bisogna pur scusare il pubblico e noi stessi se non riusciamo a dimenticare in ruoli quali Norma, Adalgisa e Pollione, le voci icone di questi personaggi Callas, Simionato e Del Monaco. La stessa “Casta diva”, sublime com’è, è tesa lì, al principio dell’opera, come un trabocchetto alla protagonista, la quale vi si avanza come un’acrobata sulla fune, tra la sospesa attenzione dell’uditorio, pronto a condannare ogni pecca d’intonazione e indecisione nei fiati e nel fraseggio, come giustamente ha fatto con la Anna Pirozzi, che ne è uscita applauditissima, sin dall’inizio della scena tutta scoperta con le famose “Sediziose voci” che racchiude l’essenza musicale e drammaturgica dell’intera opera. Tante le distrazioni dietro e sul palco per De Tommaso, il quale ha dovuto dar vita a quel binario morto dell’invenzione musicale belliniana che è la parte di Pollione, ha svolto il compito rivelando un tono stentoreo e con qualche pecca d’intonazione. La regia di Justin Way, con le scene di Charles Edwards, dei costumi di Sue Willmington, delle luci di Nicolás Fischtel e dei cosiddetti “movimenti” scenici di Jo Meredith, hanno schizzato un palcoscenico a immagine del doppio gioco di Norma o della confessione di Adalgisa, racchiuso in una scatola di legno in cui i personaggi, prigionieri del melodramma tentano di liberarsi. Vernice purtroppo anche vecchia su principi iper sfruttati, come il metateatro. La fusione dei tempi di Norma, dei Galli e dei Romani, e di quell’Ottocento risorgimentale, con tanto di divise bianche austriache, a cui appartenevano Pollione e Flavio, con Norma nei panni dell’attrice-impresaria per la quale Alexandre Soumet scrisse nel 1831 la sua tragedia teatrale Norma ou L’Infanticide, da cui è tratta l’opera. Cambiamenti di scena tutti live e rumorosi, tanto da soverchiare e disturbare il duetto “Va, crudele, e al Dio spietato”. Applausi a scena aperta da parte del pubblico intervenuto, che ha affollato il massimo partenopeo.