Pubblico delle grandi occasioni, martedì sera al teatro Verdi di Salerno, sold out per Die Dreigroschenoper di Bertold Brecht, titolo altisonante che ha attirato non solo pubblico salernitano, ma diversi amanti e critici del genere essendo un titolo difficile a vedere rappresentato. A Salerno il neonato laboratorio “Il teatro degli Attori”, guidato da Franco Alfano (già assessore della prima giunta De Luca) unitamente al Mumble Rumble e al teatro Comico Salernitano, ha conquistato facilmente la prestigiosa ribalta del massimo cittadino. In sala, l’assessore Franco Picarone e Giuseppe Zinicola, a tener a battesimo questa compagnia amatoriale che aspirerebbe trasformarsi in una futura stabile salernitana. La prima regola dell’arte è l’umiltà: Die Dreigroschenoper la si ritrova quale capolavoro nel teatro tutto, di prosa e, in particolare, musicale, un’opera a cui si riconnette anche la prima formulazione esplicita del concetto di “Teatro epico”, contrapposto a quello di “teatro naturalistico” e alla tradizionale teoria dell’unità drammatica. Il teatro epico tende a evidenziare il carattere di non necessità degli avvenimenti rappresentati e porre in luce la possibilità di soluzioni alternative, così da spingere lo spettatore a prendere partito ed esercitare un’azione critica. A ciò concorre una serie di accorgimenti scenici e drammaturgici volti a determinare nel pubblico un effetto di straniamento, ovvero a impedirne l’immedesimazione con ciò che accade sulla scena. Su questo piano la musica assume un ruolo importante: essa non deve suscitare reazioni emotive “gastronomiche” ma un atteggiamento intellettualmente attivo, instaurando col testo un rapporto antinaturalistico e critico diventando essa stessa gesto scenico e sociale ovvero, musica gestuale. Regia incolore quella di Franco Alfano, praticamente inesistente, soporifera, con qualche divagazione tarantiniana, ad esempio .”..Perché io sarei Mister Pink? – Perché tu sei un frocio!!! – hahahahaaaaa…?” con una compagnia composta, in buona parte, veramente di principianti. La compagnia si è presentata subito con la cantastorie Rosaria Vitolo, sfortunata nel preambolo in cui ci sono troppe s, sibilante, che le fa veramente difetto nella pronunzia, intonando, poi, la celeberrima ballata di Mackie Messer rendendola irriconoscibile per le gravissime stonature. Personaggio chiave è certo quello del commerciante di miseria Peachum (avidità incondizionata di denaro, cinismo gretto e straccione), uomo dai mille volti, nonché realista, affidato ad Ascanio Ferrara, che non è riuscito a barcamenarsi tra il ruolo di personaggio, cantante (anche lui purtroppo fuori tono) e direttore di coro, non riuscendo nello “straniarsi”, attraverso il dialogo in palcoscenico e l’indiretto colloquio con il pubblico. Possiamo far salvi, ma solo a sprazzi, il protagonista Makie Messer Ciro Girardi e Roberto Lombardi Brown la Tigre, Carla Avarista, una Celia Peachum sempre sopra le righe, mentre per Cristina Recupito, Jenny delle Spelonche, il giudizio è solo a metà poiché ha evitato sapientemente di intonare i famosi songs del personaggio, per non rovinarsi la reputazione. Se la Recupito ha donato silenzi espressivi e sfumature di voce, il canto sfrontato caratteristica dell’opera è stato omesso. Nell’opera la brutalità delle liriche di Brecht si unisce alla potenza delle melodie di Weill e alla sonorità da jazz-band della sua orchestrazione. Qui il capo orchestra e arrangiatore è stato Roberto Marino, seduto ad un indovinato pianoforte a muro, alla testa di un nonetto di estrazione classica composto dagli strumentini, flauto, oboe, fagotto, archi, violino, viola cello e contrabbasso, un vibrafono e percussioni, bravi e diligenti strumentisti che Roberto conosce bene e con cui ha potuto portare lo spettacolo a conclusione. Ma lo schiaffo in volto allo spettatore offerto dalla musica originale con quella partitura che prevede undici strumentisti che suonano ventitrè strumenti, fra cui sax, harmonium, fisarmonica, banjo e chitarra, dove è? Infinite le pecche dello spettacolo, mutilato proprio nei song e quei pochi proposti, anche irriconoscibili, nonostante il prestigioso vocal coach, Silvana Noschese, alla corte di Daniel Oren con il coro delle voci bianche. E’ questa concessione ad una compagnia amatoriale, del massimo cittadino, appena divenuto teatro di tradizione, un pericolosissimo precedente. Laboratori, gruppi teatrali, teatrini, registi, registini e attori sono moltissimi, troppi, in città e, a questo punto, si potranno tutti arrogare il diritto di vedersi aprire le porte del Verdi, buttando così alle ortiche la sacralità del luogo e la sua storia. Ci sarà una lunghissima fila di “petenti” teatrali a breve, dinanzi all’ufficio del nostro caro sindaco, per la concessione del massimo e magari qualche vero professionista non ardirà di chiederlo. Nonché è questa una produzione che molto difficilmente potrà avere un seguito, una tournée, poiché costosa e abbisognevole di molto spazio: per dirla con il Bellini de’ “La Sonnambula” “Che un giorno sol durò”. Unica nota veramente felice e intonata, con il credo brechtiano, le visioni di sabbia di Licio Esposito, con il suo segno tra Ensor e Maccari, speziato di ironia, poesia, fino alla distruzione della figura, con quel gusto amaro dell’indistinto o del dissoluto. Ultima citazione della famosa ballata e si chiude, ancora contrariamente all’estetica di Brecht, anche il sipario, naturalmente con l’assenso ignorante del pubblico in sala.
Olga Chieffi