Gran concorso di pubblico al secondo Candlelight Concert che ha chiuso il progetto 2021 dell’Associazione Gestione Musica, nella chiesa di Santa Maria de’ Lama
di Olga Chieffi
Portatore di messaggi misti, il tango è ancora accerchiato dai luoghi comuni. Il pacchetto di aggettivi con cui lo si suole definire, sensuale, peccaminoso, trasgressivo, lascivo, scandaloso, ruffiano, finisce col banalizzarlo e limitarlo. Il Sator Duo, con Paolo Castellani al violino e Francesco Di Giandomenico alla chitarra, in una chiesa di Santa Maria de’ Lama, impreziosita dalla luce delle candele e da un pubblico esigente e attento, all’altezza della importante serata ,che è andata a chiudere il progetto 2021 dell’Associazione Gestione Musica, diretta da Gigi Lamberti e Francesco D’Arcangelo, ci ha accompagnato per altre vie, capillari, sotterranee, usando il tango come chiave efficacissima della sua stessa storia. Scissi, in questo romanzo rio-platense in rosso e nero, vivono materiali europei e materiali oltreoceanici, conservando una parte di sé inguaribilmente straniera. L’ascolto di alcune delle pagine funzionali a quel dialogo a volte struggente, a volte leggero e scanzonato tra gli strumentisti ha fatto si che l’uditorio intrecciasse una perturbante e sensuale danza d’amore, che ha alternato tensioni e distensioni; perturbante come è tutto ciò che rimanda a pulsioni ancestrali rimosse nell’Es, pur tuttavia presenti nell’inconscio collettivo. Il perturbante, quindi l’ancestrale e il primitivo, qui si sono fusi senza iati con la musica alta costituendo anzi una sorta di sfero armonioso nel quale gli elementi costituenti la struttura hanno risuonato per simpatia; musica alta, che il duo ci ha ricordato costantemente non essere in conflitto ed incompatibile con la musica popolare delle radici. Il tango va consumato esattamente nell’interludio tra la mancanza e la pienezza, essendo una forma di sopravvivenza, una maniera di riconoscersi e rappresentarsi, di esorcizzare la nostalgia, l’abbandono, il senso di estraneità. Una delle condizioni più stranulate e poetiche della cultura latinoamericana, della cultura dell’esilio in genere, della cultura pronta a nuove ibridazioni e acclimatazioni, che si è addentrata ormai in chissà quali sobborghi della nostra anima. Il concerto è stato praticamente una piccola storia del tango, con due esempi della Guardia Vieja, La Cumparsita, un tango uruguagio firmato da Matos Rodriguez ed El choclo scritto da Ángel Gregorio Villoldo Arroyo, prima di passare a due pagine originali di Paolo Castellani, “Songoj de la maro” e SatorTango, l’omaggio del duo ad Astor e alla sua rivoluzione, attraverso cui abbiamo visto il tango tallonare gli emigranti di ieri e gli esiliati di oggi. Che la parola tango derivi dal termine francese tangage, “beccheggio”, oppure dal verbo latino tangere, toccare, che sia termine di origine giapponese che corrisponde ad una città giapponese, che derivi dal fandango, una danza Andalusa, oppure dal tango flamenco, tanguillo, o da tangos, nome dato ai locali che rappresentavano i ritrovi dei neri o dal termine africano tambo, che significa tamburo, il tango, non è una danza come le altre: G.B.Shaw affermò che il Tango è l’unico ballo di società che merita l’appellativo di danza. Basta poco per comprendere che, dal punto di vista della tecnica del ballo, la regola è data da ciò che per gli atri balli rappresenta l’eccezione, cioè l’improvvisazione. Questa particolarità conferisce al Tango possibilità che nessuna danza può avere; la possibilità di ballare anche soltanto camminando o di ballare privilegiando il ritmo, la melodia o tutte e due le cose. Si tratta in definitiva di un modo di godere la musica e, se possiamo estremizzare il ragionamento, qualunque musica. Ed è qui che si è innestato l’omaggio ad Astor Piazzolla nell’anno celebrativo del centenario della sua nascita, con melodie nate per l’ascolto, per il concerto, dalla purezza assoluta del suono in Oblivion, passando per Bordel 1900, café 1930, Night club 1960 e concludendo con lo struggente Adios Nonino e “La Muerte dell’Angel”, che ha dato il titolo alla serata, pagine attraverso cui Sator Duo ha stregato l’uditorio nel suo non offrirgli troppo facili e, in fondo rassicuranti, appigli transtilistici, ma calandolo in un ideale momento di sintesi tra i molteplici rimandi che i musicisti riecheggiano nel loro stile. Stile alla cui riuscita non sono ovviamente estranei uno spiccato senso della tradizione jazzistica, simbolo del personale viaggio, del tango alla scoperta di due fortissime radici popolari, quella argentina e quella nero-americana, di cui Astor Piazzolla si nutre e trae quel profilo così marcato. Se l’elemento vincente della performance, sicuramente sopra le righe, è risultato la ricchezza dell’apparato tematico delle opere di Piazzolla, vivificate dal cimento e dall’invenzione del Sator Duo, nonché dalla propensione trasparente per un eloquio diretto, in cui la perizia strumentale ha prevalso sullo scavo concettuale e sulla transidiomicità del repertorio tematico; la forza propulsiva del sentire argentino, quella ripetizione ossessiva in progressione, di alcuni temi, quasi a voler significare che il normale spettatore deve ascoltare più volte quella particolare espressione musicale prima di poterla gustare, è risultata la chiave dell’intera serata. Standing ovation ricambiata generosamente con tre bis una virtuosistica Malaguena, firmata dallo stesso Paolo Castellani, la cullante Ave Maria, nient’altro che il tema di Matilde dell’Enrico IV di Marco Bellocchio e l’imprescindibile e trascinante Libertango.