Di Olga Chieffi
“San Matteo dentro un magazeno, o ver salone ad uso di gabella con diverse robbe che convengono a tale officio con un banco come usano i gabellieri con i libri, et danari, in atto d’aver riscosso qualche somma, dal qual banco San Matteo, vestito secondo che parerà convenirsi a quell’arte, si levi con desiderio per venire a Nostro Signore che, passando lungo la strada con i suoi discepoli, lo chiama all’apostolato; e nell’atto di San Matteo si ha da dimostrare l’artificio del pittore”. Queste le minuziose istruzioni del memorandum preparato dal cardinale Contarelli per Caravaggio Matteo come uno di quei «pubblicani» (agenti delle tasse) che Gesù menziona con disprezzo nel discorso della Montagna, e condensano la scena in pochissime parole: “passando per strada, Gesù vide un pubblicano chiamato Matteo seduto al banco delle imposte e gli disse “Seguimi!”. Ed egli si alzò e lo seguì”. Banco e sgabello, sono oggi dinanzi all’entrata della cattedra di Matteo, un deciso passo indietro, il nastro della storia ri-arrotolato, Caravaggio messo alla porta.
In questi giorni non c’è stata giustizia per l’arte, che è tale poiché non possiede secondi fini. Musica, Parola, Arte, messa al bando, maltrattate da novelli gabellieri, simboli quelli delle varie arti, che quali sfondi originari a cui ricondursi, sanno dispiegare “storie nascoste” e non possono avere codici, poiché concludendo con Henry Corbin: “Il segno dell’arte non è artificialmente costruito, ma è ciò che nell’anima spontaneamente si chiude per annunciare qualcosa che non può essere espressa altrimenti. Esso è l’unica espressione attraverso cui una realtà si fa trasparente all’anima, mentre in se stessa rimane al di là di ogni possibile espressione”.
Il filosofo canadese Alain Denault mostra le conseguenza del ritorno al banco e alla gabella, nel suo libro “Governance – il management totalitario”: la politica muore e si muta in “un’arte della gestione”, in quanto tale, priva di ogni registro discorsivo. Se nell’ultimo quarto del XX secolo per descrivere e regolamentare il funzionamento delle organizzazioni e delle strutture aziendali, i teorici delle imprese ricorrevano a un termine che, sin dal lontano XVI secolo, era un semplice sinonimo di governo: “governance”, all’inizio del anni Ottanta, il termine viene introdotto nella vita pubblica, col pretesto di affermare la necessità di una sana gestione neoliberale dello Stato, caratterizzata da deregulation e privatizzazione dei servizi pubblici. Negli anni successivi, attraverso questo sintagma, si è fatto strada quello che qualcuno ha definito un vero e proprio “colpo di stato concettuale”. La governance, infatti, non è soltanto un termine che indica la necessità di adattare le istituzioni alle necessità e ai desiderata dell’impresa, ma qualcosa di molto più rilevante. E’ un’espressione volutamente indeterminata che esprime la nuova arte della politica “senza governo”, senza quella pratica, cioè, che presuppone una politica dibattuta pubblicamente. Strappato il vecchio contratto sociale alla base di ogni “governo”, la governance inaugura “l’età felice” del management d’impresa e la teoria della tecnica aziendale al rango di pensiero politico. “Non si dice più cittadino ma stakeholder, non si dice più popolo ma società civile, non abbiamo più dibattiti politici ma consensi, non ci sono più politica ecologica ma sviluppo sostenibile, non abbiamo più bene pubblico ma parternariato. E, dappertutto, abbiamo solo dei clienti. All’ospedale, all’università, ovunque voi siete voi siete dei clienti”. Le ricadute sulla vita del singolo cittadino sono per Deneault evidenti: “Il soggetto destrutturato non sa nemmeno cosa sta facendo al lavoro. Questa è la mediocrazia: ci porta a fare quello solo che serve per avanzare socialmente. Se pensate come l’oligarchia sarete premiati, se vi allontanate diventate pazzi o sognatori”.
Un meccanismo così potente che porta a non essere quasi più visibili. “L’autocensura – teorizza Deneault – si è spostata nell’inconscio: è a quel livello che viene fatta la negoziazione tra le parole”. “Siamo vicini a un cambiamento – scrive Alain Denault – proprio quando nessuno se l’aspetta più: le persone sentono vicino il momento di riappropriarsi della propria vita e della politica.
Noi, intanto, lottiamo per riconquistare le parole, il segno artistico e quello musicale”. San Matteo è il Santo del cambiamento, il suo fu un viaggio lungo, dopo essersi alzato dal banco del gabelliere, che ripercorreremo, angolando in modo altro il nostro vedere, la nostra visione, che da sempre passa attraverso le lenti delle arti. Un viaggio reso arduo da ostacoli e resistenze, quello dell’Evangelista, un cammino pathico il nostro, sulle sue tracce e nella sua giornata, essendo ancora una volta allievi e seguire un Maestro, perché i pensieri fluttuano sui sentimenti come le piume sull’acqua, si muovono lentamente e ristanno pochi momenti, perché lo spirito delle arti ha, forse, l’invidiabile privilegio di potersi sostenere incredibilmente alla caduta delle premesse e illuminarsi oltre le conclusioni della ragione.