Di Michele Amoruso
Metà del diciannovesimo secolo, l’unificazione dell’Italia è ad un tiro di schioppo, la penisola, nonostante i campi di battaglia e le zone d’ombra, è solcata da mercanti e mercanzie, viaggiatori ed artisti, avventurieri e pionieri. Dopotutto l’Italia non ha mai dismesso la veste di terra meravigliosa, affascinante, inimitabile. E la fila per vederla, raccontarla, poter almeno dire di averla calpestata, inizia da molte miglia oltre i confini. La metà del diciannovesimo secolo è anche quella della nascita della fotografia: nelle sue molteplici ed embrionali forme, nelle sue incerte e svariate tecniche, nei suoi continui e necessari esperimenti. Neanche un trentennio prima, Thomas Wedgwood, e più notoriamente Joseph Nicéphore Niépce la inventano mettendo a frutto anni di esperimenti e ricerche, scoperte e combinazioni. Dalla celebre “vista dalla finestra a Le Gras” del 1926 alle fotografie di un trentennio dopo i mezzi, seppur ancora assai rudimentali, si sono perfezionati, con una diffusione assai più larga di quanto oggi si possa credere, e soprattutto nelle case e nelle mani delle classi più benestanti. È una fotografia chimica, di mezzi pesanti e scomodi, non ha ancora un’alfabetizzazione per sé stessa, si muove tra l’incertezza dei risultati ed il fascino della scoperta. Ma inizia a diventare anche una compagna di viaggio, una necessità fisica, un vettore di ricordi e memorie a scapito di acquerellisti e pittori di vedute locali. È che cambia prepotentemente il risultato, l’intenzione del risultato, la materia del risultato, ed è per questo che l’Arte, quella padrona dei mercati per secoli e secoli, la relega a semplice ancella della pittura, snobbandola per un tempo così lungo, da aver superato abbondantemente la seconda Repubblica e ritrovarla ancora tra affanni ed imbarazzi. Metà del diciannovesimo secolo, dunque, la Provincia di Salerno, che era più o meno Principato Citra del Regno delle Due Sicilie, è una Medina per nulla di secondo piano nel ventaglio di scelte delle meraviglie da visitare: Paestum, Salerno, Amalfi e la sua costa. E allora tedeschi, francesi, inglesi, mossi alcuni da affari, altri dal piacere, bagagli ed aspettative alla mano, raggiungono quei luoghi nelle diverse motivazioni e spesso si fanno accompagnare dalle loro macchine fotografiche. Quella di Jane Martha St. John era una scatola di legno con ottica fissa in vetro. Jane Martha St. John è una delle grandi pioniere della fotografia, forse anche per il suo legame di parentela con William Fox Talbot (l’inventore della calotipia, tecnica utilizzata proprio dalla St. John), le sue immagini in Italia materiale iconografico di importanza inusitata. A Salerno realizza, durante il soggiorno italiano, due fotografie (di quelle conosciute e conservatesi): una dal terrazzo dell’Hotel d’Inghilterra in Via Roma, con lo sguardo verso il nucleo storico della città, e l’altra dalla riva del mare con la macchina puntata verso la città ed il castello Arechi disteso sul suo crinale. Sono due immagini uniche, splendide. E non soltanto per il valore storico di un documento lontano un secolo e mezzo nel passato, ma anche per la grammatica fotografica mostrata, ad espressione di un talento notevole e precursore di tempi e tecniche. Era una Salerno diversa quella, assai più piccola, contratta, di palazzi chiari e vetusti, di strade in battuto, di carrozze, di ragazzini scalzi per strada e pescatori sdraiati ad asciugare al sole. Le due fotografie, insieme a quelle romane, di Paestum, di Tivoli, di Napoli, sono conservate al Paul Getty Museum di Los Angeles, non un museo di provincia. Il supporto di stampa è quello della carta all’albumina, introdotta intorno al 1850, ed impostasi come positivo di stampa maggiormente diffuso e commercializzato. Grazie all’uso della tecnica talbotiana gli scatti sono assai nitidi, pieni di dettagli. I tempi di esposizione, assai ridotti rispetto ai dagherrotipi, poi, ne permettono un controllo maggiore della luce, delle ombre, della traiettoria solare. Non sono le immagini più antiche di Salerno, sia chiaro, già dal terrazzo dell’Hotel d’Inghilterra Paul Jeuffrain, un commerciante di tessuti, nel 1852 aveva fotografato Salerno. Ma quella, seppur importantissima, è una foto assai meno nitida, leggibile, pulita. Complice la tecnica, complice lo strumento, complice qualche anno in meno di progressione tecnologica. La storia di Jane Martha St. John, a Salerno, è quella di un terminus ante quem della grande trasformazione cittadina: seguiranno le due guerre, l’alluvione del ’54, lo sviluppo industriale e commerciale del dopoguerra, il sisma dell’80, i tempi recenti poco prima e poco dopo il nuovo millennio. Ed una Salerno che si estende cinque volte in più rispetto a quella di allora. Il potere della fotografia, parrà banale sottolinearlo, è proprio questo: si cristallizza un momento, i suoi luoghi, i suoi protagonisti, si mettono a verbale interpretazioni ed errori, inquadrature e scelte. Se conosciamo, quindi, quella Salerno di più di 150 anni fa, un tempo remoto nei ricordi e negli scritti, è anche merito, quindi, di Jane Martha St. John, viaggiatrice, fotografa, pioniera coraggiosa innamorata dell’Italia.