di Alfonso Malangone*
La denuncia delle situazioni di allarme ambientale è affidata a due parole che, nell’uso corrente, vengono spesso considerate come sinonimi. Si parla indistintamente di ‘pericolo’ e di ‘rischio’ benché siano, nella pratica, concetti ben diversi. Infatti, la ‘pericolosità’ è genericamente riferita alla probabilità che avvenga un dato evento, mentre la ‘rischiosità’ è concretamente riferita al danno che quell’evento può provocare alle vite e alle cose umane. E, quindi, in un’area desertica può essere elevato il pericolo di un terremoto, ma non sarà tale il rischio, mentre nelle aree abitate sono frequenti i luoghi nei quali i livelli possono coesistere, benché non coincidere per l’adozione di scelte idonee a contenerne le conseguenze. In sostanza, la rischiosità di un’area è tanto minore rispetto alla sua pericolosità quanto maggiore è l’attenzione rivolta alla difesa della sua vulnerabilità. In ogni caso, avendo ormai a disposizione carte dettagliatissime del territorio, sarebbe quanto mai opportuno evitare insediamenti nelle zone con alta instabilità per gli eventi più dannosi che la natura può scatenare: terremoti, alluvioni e frane. Purtroppo, accade spesso che i luoghi più affascinanti o attrattivi siano proprio quelli con più elevati fenomeni avversi. E, il nostro, ne è esempio evidente.
L’origine geologica rende un’ampia fascia del territorio urbano particolarmente sensibile alle calamità naturali, con esiti devastanti. Inutile indicarli, li conosciamo tutti. Per questo, abbiamo imparato a costruire meglio, abbandonando le improbabili murature di pietre e tufo, pure definite ‘portanti’, per vivere in case più sicure di cemento armato. Però, abbiamo continuato a costruire dappertutto. Adesso, con Ischia, ma anche con tanti altri eventi precedenti, stiamo scoprendo che non è sufficiente fare i pilastri di cemento se li poggiamo sul letto di un fiume, sul fianco di una collina fragile o, addirittura, sul mare. E, stiamo verificando che nella sfida ‘stupida’ con la natura siamo perdenti, sempre, divenendo ‘assassini’ nei confronti di chi ha subìto gli effetti di scelte disgraziate o addirittura consumando il ‘suicidio’ diretto.
La elevata pericolosità di quell’Isola, pure denunciata da decenni, avrebbe dovuto imporre interventi di prevenzione o una selezione più approfondita dei luoghi. Adesso, di questa tragedia mancano ‘padri’ e ‘madri’. Anzi. Si attribuiscono le cause a presunte opere abusive per coprire precise responsabilità di chi ha autorizzato, consentito o anche agevolato, voltando gli occhi da un’altra parte (fonte: stampa).
Da questa tragedia, vivendo noi in un territorio di cui sono note le criticità, dovremmo trarre utili insegnamenti per introdurre nuovi comportamenti più virtuosi e di maggior rispetto nei confronti dell’ambiente.
Sappiamo tutti che le aree dell’Olivieri, del Centro Storico, del costone al di sopra dell’ex Seminario, sono pericolose e rischiose. E’ ben scritto nelle tavole dell’Ispra (Istituto Superiore per la Protezione e la Ricerca Ambientale), della Regione Campania e anche del Comune che, nella tavola ‘Pericolosità da frana’ del Piano per la protezione Civile, segnala la presenza di rischi di categoria 3 e 4, elevato e molto elevato (fonte: ladenuncia). Non a caso, nel corso di un pubblico incontro, il Competente Assessore ha dichiarato che non è possibile ipotizzare la costruzione del parcheggio richiesto dai residenti nell’area di San Leo. Troppo pericoloso per auto e utenti. Eppure, proprio a San Leo si è scavato, e si sta ancora lavorando, per le gallerie del porto. Al Cernicchiara, poi, dove una volta c’era un fiume, si sta consumando la montagna per realizzare il ‘retroporto’, cioè un piazzale smisurato dove accumulare i container che i tir dovranno portare su dalle banchine salendo per due chilometri con un dislivello di oltre 100 metri e una pendenza di almeno il 6%. Ci vorranno le marce ridotte. E, ci vorranno i ventilatori nelle gallerie che, però, trasporteranno all’esterno fumi e veleni per la gioia dei residenti. Di seguito, rotatorie aeree e strade costruite a metà dei costoni su via Moscato e via Frà Generoso faranno ‘volteggiare’ i tir per incanalarli verso le autostrade. Sarebbe difficile costruirle anche con i Lego. Così, tre tir al minuto, che già oggi transitano sul viadotto Gatto (fonte: IoSalerno), saliranno dentro le gallerie alimentando vibrazioni forse pericolose per la tenuta dell’instabile legame tra accumuli secolari di “ciottoli calcarei, sabbia marina, ceneri e pietra pomice” (fonte: relazione Posta Ovest Pica Ciamarra). Recenti articoli di stampa hanno portato a conoscenza di tutti preziose informazioni sulla pericolosità e sui rischi di versanti con depositi di materiali detritici di copertura che per gli eventi definiti ‘bombe d’acqua’ possono liquefarsi e trasformarsi nelle colate di fango di Ischia (fonte: Cronache).
Sarebbe sufficiente, tutto questo, per sedersi e riflettere. Invece, no. Si legge, oggi, che il trincerone Ovest, quello che si affaccia sulla Stazione, sarà collegato in sotterranea con via SS. Martiri/via Dalmazia in modo da consentire alle auto di incanalarsi verso l’area alta della Città. Cioè, proprio in un sottopasso che spesso si allaga per acquazzoni violenti e dove si possono incastrare anche gli autobus (fonte: Zon). Un luogo angusto, basso, stretto, senza luce ne aria. Sarà pure l’idea di tecnici validi, ma forse non è delle migliori.Si legge, poi, che il trincerone Ovest, che si ferma alla rotatoria di via S. Eremita, asfalterà la Caserma Pisacane della Polizia, che – però – era un Convento del XI Secolo (ma a chi importa?), per raggiungere la parte altra del Centro Storico coprendo la ferrovia e scalfendo la montagna. Sembra non sia stato ben capito che costruire sulle montagne, sull’acqua, sulla sabbia, sui dirupi e nei fiumi, non costituisce un merito. Sarebbe opportuno che i cittadini ne prendano coscienza. Anche perché, gira-gira, sarà comunque la Città a pagare pregno.
*Ali per la Città