di Corradino Pellecchia
Quest’anno ricorre il 70° anniversario di “Salerno capitale” – la città è stata sede del primo Governo italiano dall’11 febbraio alla fine di luglio del 1944 – un ruolo che ha ricoperto con dignità in un periodo così delicato della storia politica italiana. La città è stata testimone di eventi storici di grande portata, fra cui la cosiddetta “svolta di Salerno”, un’iniziativa assunta da Togliatti, su pressione di Stalin, per sbloccare lo stallo conseguente alla pregiudiziale monarchica dei partiti antifascisti, in modo da consentire la formazione di un governo di unità nazionale. Fece scalpore perciò l’esclusione di Salerno dalle celebrazioni nazionali per il 150° anniversario dell’Unità d’Italia, dimenticanza in parte sanata successivamente. Ad alcuni parlamentari campani che ne chiedevano spiegazione, Giorgio Napolitano scriveva che “Non esiste un atto normativo di formale trasferimento della capitale a Salerno come quello che sanzionavano la trasformazione di Torino da capitale del Regno Sabaudo in capitale d’Italia, così come il trasferimento da Torino a Firenze e finalmente da Torino a Roma”. E’ la tesi sostenuta anche da alcuni studiosi che ritengono che la scelta, dunque, non era avvenuta in piena libertà, con un atto ufficiale del Governo e del Parlamento, ma condizionata dagli avvenimenti. Questa giustificazione, però, non trova d’accordo lo storico Nicola Oddati che a tal proposito ha scritto: “L’11 febbraio 1944 il governo Badoglio si trasferisce a Salerno da Brindisi, sede ormai inadeguata. Subito viene convocato un Consiglio dei Ministri a Palazzo di Città e il 15 febbraio viene stampata la Gazzetta Ufficiale che, sotto la sua intestazione, porta il nome di Salerno, cosa avvenuta, precedentemente, per Torino, Firenze e Roma. Tutto ciò ci fa affermare che la nostra città assume il ruolo non di sola sede del governo, ma di capitale (le poche gazzette edite a Brindisi riportano sotto l’intestazione la dicitura: sede del governo)”. Lo storico salernitano spiega ancora che “non è azzardato ritenere che il percorso della Carta Costituzionale sia stata concepita a Salerno, nel Salone dei Marmi, il 22 giugno del ’44, nella prima seduta del Governo presieduto da Ivanoe Bonomi e di cui facevano parte, tra gli altri, Benedetto Croce, Carlo Sforza, Meuccio Ruini, Alberto Cianca, Giuseppe Saragat, Alcide De Gasperi e Palmiro Togliatti, quando all’unanimità fu deciso il percorso della Costituente”. Ma, al di là delle polemiche, è innegabile che Salerno abbia svolto un ruolo non da poco nella storia della nuova Italia democratica; come Brindisi, ha rappresentato la continuità dello Stato, per la presenza di un governo, del re, per i provvedimenti legislativi che furono deliberati in quei mesi, per la nomina di nuovi ministri e sottosegretari. Ma facciamo un passo indietro e ripercorriamo brevemente gli avvenimenti che portarono ai giorni di Salerno Capitale. All’alba del 9 settembre 1943, il re, la sua famiglia e il governo, anziché organizzare la difesa, avevano abbandonato precipitosamente la Capitale e fuggirono a Pescara, lasciando dietro di sé un Paese sull’orlo del collasso e il caos più completo; da Ortona poi si imbarcarono sulla corvetta “Baionetta” per Brindisi. Vittorio Emanuele III la sera del 10 settembre con un proclama ai microfoni di Radio Bari spiegherà le ragioni di quella drammatica decisione: “Italiani, per la salvezza della Capitale e per poter pienamente assolvere i miei doveri di Re, col Governo e con le Autorità Militari, mi sono trasferito in un altro punto del sacro e libero suolo nazionale”. Ma saranno in pochi ad ascoltarlo, a causa della scarsa potenza della radio (20kw). Il primo governo nazionale della liberazione, presieduto dal maresciallo Pietro Badoglio, dopo un inizio logisticamente critico, si riunirà per la prima volta, per svolgere la sua l’attività amministrativa, il 24 novembre nei locali della prefettura. La costituzione del nuovo governo fu pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale, stampata a Brindisi presso la tipografia Ragione. Dopo cinque mesi di permanenza nella città pugliese, l’11 febbraio 1944, il Governo si trasferirà a Salerno, che era stata nel frattempo occupata dagli Alleati ufficialmente l’11 settembre 1943, nel corso dell’Operazione Avalanche, che aveva interessato un vasto fronte che si estendeva da Agropoli fino a Minori. Il colonnello Thomas Aloysius Lane, un americano di origine irlandese, ne aveva assunto il governo militare, instaurando da subito rapporti cordiali e di collaborazione con la popolazione. Ha scritto lo storico Gabriele De Rosa: “La città di Salerno con i suoi 80mila abitanti svolgeva un ruolo che sembrava l’avesse dilatata, come ingrandita. I salernitani consapevoli allora del momento eccezionale, sentivano l’orgoglio di ospitare il governo d’Italia, un orgoglio che si manifestava in una generosa gara di tutti ad offrirsi per quanto potesse occorrere per il vanto del proprio paese, per l’onore d’Italia”. A Salerno il re, il governo e i ministri verranno dislocati su un’area assai vasta per carenza di spazio e per esigenze funzionali. La Presidenza del Consiglio, il Ministero dell’Interno e il Ministero dell’Educazione Nazionale furono ospitati nel Palazzo di Città; nel Salone dei Marmi si tenevano le riunioni del Consiglio dei Ministri; nell’ufficio del Sindaco l’Ufficio del Presidente del Consiglio dei Ministri; nella Sala della Giunta la sede del Ministero dell’Educazione Nazionale. Il Ministero dei lavori Pubblici e quello dell’Agricoltura e Foreste fu ospitato a Palazzo Natella, che ospitava anche gli uffici di collegamento con il Ministero della Marina e con quello della Guerra, rimasti a Brindisi; il Ministero di Grazia e Giustizia e della Suprema Corte di Cassazione al Palazzo di Giustizia; il Sottosegretariato delle Poste e Telegrafi al Palazzo delle Poste; il Ministero degli Esteri a Palazzo Barone; il Ministero delle Finanze presso l’edificio delle Corporazioni; il Ministero dell’Industria e Commercio a Vietri sul Mare nelle scuole elementari; l’ufficio di collegamento con il Ministero dell’Aeronautica era a Cava dei Tirreni nella villa “Formosa”. Nei mesi in cui Salerno fu capitale, il re Vittorio Emanuele III alloggiò a villa Guariglia, a Raito, una frazione di Vietri sul Mare, e come a Brindisi, dove rimase quasi sempre all’interno del castello svevo, raramente fu visto in pubblico. Le uniche uscite le faceva per andare a pescare in barca nello specchio d’acqua fra Marina di Vietri ed Albori. La regina Elena, invece, desiderando coltivare la sua passione per la fotografia, si rivolse ad Ernesto Samaritani, “il fotografo della Costiera”, che le allestì, all’interno della Villa, una camera oscura. Il fotografo salernitano, che non pretese nessun compenso per la sua consulenza, manterrà una sincera amicizia con i membri di Casa Savoia, anche dopo la loro partenza da Raito. Alfonso Menna, allora segretario comunale e direttore dei servizi di alimentazione, venne ricevuto a villa Guariglia dai reali che volevano ringraziarlo per le attenzioni ricevute. Racconta che venne colpito dalle mani della regina, grandi e ruvide, come di una donna abituata ai lavori domestici e dal re che trovò molto invecchiato, sfuggente, segnato dagli avvenimenti, intento a scrivere le sue memorie. In seguito i reali si trasferiranno a Palazzo Episcopio del Duca di Sangro a Ravello.Ma sentiamo dalla voce di Francesco Aliberti, testimone di quelle storiche giornate, come si viveva a Salerno. “Con l’arrivo degli alleati la città cominciò ad animarsi. Erano finalmente finite le incursioni aeree e la corsa nei rifugi. Si respirava aria di pace; si tornava lentamente alla normalità, anche se la città presentava ancora cumuli di macerie e i segni della guerra erano visibili sui volti della gente e nelle loro abitudini che erano cambiate. Con i miei amici andavamo in giro a vedere gli effetti dei bombardamenti. A San Giovanniello, uno dei rioni più colpiti, le macerie di una palazzina avevano ostruito l’ingresso di un rifugio impedendo alle persone di uscire. Morirono tutti. Si rinvenivano ancora fra i detriti delle bottiglie con i bigliettini di richieste d’aiuto da parte di quei poveri disgraziati. La caserma Umberto I era stata completamente rasa al suolo, come pure erano stati colpiti alcuni edifici di Corso Vittorio Emanuele, Corso Garibaldi e la stazione. Per strada si vedevano mezzi militari di ogni genere e nei punti strategici erano stati piazzati dei cannoni anticarro. Le truppe d’occupazione si erano acquartierate a piazza San Francesco, via dei Principati, sul Carmine, ma soprattutto nella zona orientale; a Torre Angellara c’era un Rest Camp, un ospedale militare, dove a curare i malati c’erano anche, fra i dottori e gli infermieri, delle donne. Nel dopoguerra divenne la sede dell’Opera dei “Ragazzi Nostri”, un’organizzazione di accoglienza di minori abbandonati. Molti sfollati quando rientrarono in città ebbero la sorpresa di trovare le loro abitazioni occupate o requisite. Per strada di tanto in tanto s’incontravano dei reduci con i sacchi in spalla, la barba lunga, i vestiti sporchi e laceri. Mancava di tutto: gas, acqua, latte, pane, benzina. Si viveva alla giornata; ogni giorno s’inventava qualcosa. Anche noi avevamo le nostre difficoltà, anche se i miei genitori non hanno fatto mai mancare il piatto a tavola. Ma non mi parlate più di minestra! Niente andava sprecato; tutto veniva riciclato, come gli abiti dei fratelli più grandi che venivano riadattati. Il pensiero dominante era il cibo. Si sviluppò allora l’italianissima “arte di arrangiarsi” per procacciarsi l’essenziale non per vivere, ma per sopravvivere. Con qualsiasi mezzo si cercava di procurare il necessario. Si praticava il baratto e la borsa nera, alimentata anche dai viveri provenienti dai depositi delle Forze Alleate. Molte persone dovettero mettere mano ai risparmi o vendere gli oggetti preziosi o i corredi delle figlie. Altri, per risparmiare, andavano direttamente in campagna a rifornirsi di verdure e patate, anche se era proibito. Noi ragazzi eravamo sempre tormentati dalla fame. Spesso ce ne andavamo nella villa comunale, dove c’era un accampamento di soldati e cercavamo di fraternizzare; i militari ci riempivano di caramelle e cioccolate e spesso ci davano gli avanzi dello loro scatolette di carne. Io mi facevo dare anche delle sigarette che portavo a mio padre e per la prima volta masticai il chewing-gum, la “gomma americana”. Numerosi furono i saccheggi di esercizi commerciali e di abitazioni da parte dei militari alleati, interessati soprattutto alle oreficerie, e dei civili. I negozianti che riuscirono a salvare i loro depositi si arricchirono, perché i prezzi salirono alle stelle. Sciamava per la città una folla di soldati di tutte le razze, moltissimi di colore, e questo fece aumentare rapidamente il numero delle prostitute, venute anche dalla provincia, che si offrivano fra i vicoli e lungo le stradine della città vecchia. Per arginare il fenomeno delle “segnorine” e di ogni genere di traffici illeciti, le autorità militari alleate fecero apporre sui muri le scritte “Off limits” e “Out of bounds”, per interdire ai propri militari quei luoghi pericolosi. Sotto l’arco che conduce a Castel Terracena è ancora possibile vedere una di queste iscrizioni. A via Romualdo II Guarna c’era un palazzo con due entrate; ci portavano i soldati americani con la scusa di farli bere; poi, quando erano ubriachi, li derubavano e se ne scappavano dall’uscita che dava su via Duomo. Spesso per strada scoppiavano delle risse e doveva intervenire la polizia militare; il barone Emanuele Santamaria era uno di quelli che non tralasciava occasione per attaccar briga, perché non sopportava l’atteggiamento di superiorità dei militari inglesi. Una volta ci fu una sparatoria che vide protagonisti i soldati polacchi che si misero a sparare all’impazzata per le strade, uccidendo due passanti. Ricordo che un giorno nel vicolo Cassavecchia ci fu una grande agitazione perché era arrivato Palmiro Togliatti, che era andato a trovare il cavaliere Nicoletti, un grande collezionista di libri, che abitava a palazzo Morese. Ecco, questi sono dei flash, dei ricordi della mia esistenza, che non riuscirò mai a dimenticare”. Nel periodo costituzionale transitorio a Salerno si succedettero tre governi. Il primo, tecnico militare, presieduto da Pietro Badoglio, dall’11 febbraio al 17 aprile 1944, di cui facevano parte due ministri salernitani (Giovanni Cuomo all’Educazione Nazionale e Raffaele Guariglia agli Esteri); il secondo, di unità nazionale, il Badoglio II, dal 22 aprile all’8 giugno 1944, e infine il Bonomi II, dal 18 giugno alla fine di luglio del 1944, composto da Dc, Pci, Psiup, Pli, PdA, Pdl. Durante il periodo che il Governo fu a Salerno ebbe a tenere complessivamente ventidue sedute, la prima nel pomeriggio dell’11 febbraio 1944. Il 23 marzo 1944, portate dal vento, tonnellate di cenere e lapilli dell’eruzione del Vesuvio sommersero la nostra città. Per evitare crolli si dovette procedere alla loro rimozione dai tetti e per liberare le strade si utilizzarono i potenti bulldozer degli alleati, sconvolti da quel fenomeno insolito e inaspettato. I lapilli, scaricati in mare di fronte al Palazzo di Città, insieme alle macerie causate dai bombardamenti, verranno utilizzati, grazie ad una felice intuizione del sindaco Alfonso Menna, per realizzare nel secondo dopoguerra il tratto centrale del Lungomare. Il 22 gennaio 1944 Radio Londra trasmise un messaggio in codice: “La zia è malata e sta per morire”. Gli Alleati erano sbarcati ad Anzio, ma per percorrere i 50 chilometri che li separavano da Roma impiegarono mesi. Bisognerà attendere i primi di giugno perché facciano finalmente il loro ingresso a Roma. Il 4 giugno la città eterna venne liberata dalla V Armata Usa, comandata dal generale Mark Clark; ma il governo continuerà a riunirsi a Salerno fino alla fine di luglio, in attesa che si fosse normalizzata la situazione a Roma. Si concludeva così la breve parentesi di Salerno Capitale. In quel tempo così breve, in cui la città aveva svolto il ruolo di capitale, prese forma un governo che fu il primo supporto del nuovo Stato italiano e l’inizio della storia della nostra rinascita come popolo.