di Matteo Gallo
«Se vogliamo parlare male a prescindere degli ultimi trent’anni di governo della città dobbiamo anche assumerci la responsabilità di non rendere un buon servizio alla verità della sua storia né al suo futuro possibile. I primi anni del sindacato di Vincenzo De Luca sono stati senza dubbio positivi perché raccoglievano la volontà della cittadinanza tutta di realizzare -per sé e per la propria realtà urbana- una nuova dimensione sociale. Questa voglia si è tradotta nell’entusiasmo dell’impegno. Da tempo, però, questo sentimento “contagioso” non esiste più e Salerno rischia di morire nell’ assenza di un “disegno comune” per il suo futuro». Rosario Peduto mette piedi, testa e soprattutto cuore nel decennio dei Novanta per tirare fuori il ricordo di un humus comunitario e utilizzarlo come montatura da vista per leggere il presente. Sposato con Antonella e padre del piccolo Andrea, appassionato da sempre di filosofia e di politica, militante del pensiero prima ancora che di partito, giocatore fisso nella porzione di campo della destra sociale, il quarantasettenne salernitano volge lo sguardo della sua riflessione oltre l’ostacolo temporale. «La mancanza di entusiasmo collettivo, di quell’entusiasmo dell’impegno da parte dei cittadini -approfondisce il concetto- è il vero grande fallimento della politica deluchiana e il principale ostacolo alla rinascita di Salerno. Quella sensazione di grandissima vitalità non apparteneva solo alle giovani generazioni e faceva la differenza perché investiva ogni cosa, proiettando all’esterno l’immagine di una città in stato di grazia e grande salute civica. Pensiamo ad esempio alla movida, che proprio in quel decennio ha vissuto la sua stagione iniziale ma anche la più esaltante. A Salerno, tra via Roma ed i vicoli del centro storico, tutti i fine settimana si riversavano migliaia di persone da ogni dove. Purtroppo, diversamente da quanto accaduto in altre realtà urbane, chi aveva la responsabilità di governare i processi politici, economici, culturali e sociali della città, e quindi anche di occuparsi della movida, non ha saputo accompagnarla con altro: i contenitori sono rimasti senza contenuti e ogni cosa alla fine si è “sgonfiata”».
Rosario, quali gli errori commessi?
«L’ errore principale che di fatto ha azzerato, nel volgere di un decennio, quella vitalità, è stata l’ incapacità di assegnarle un’ “altezza”. Bisognava riempire un “fatto” -che poteva sembrare di tratto esclusivamente commerciale e ricreativo- di un significato culturale legato alla identità profonda della città. Se accade invece che la movida diventi un solo problema di “ordine pubblico”, con ordinanze, limiti e controlli, vuol dire che si è persa la scommessa di farne un volano per veicolare una nuova immagine della città e della sua storia».
A Salerno, da allora, non è cambiato solo il mondo della notte ma anche quello “del giorno”. Il commercio al dettaglio, a gestione familiare e trazione autoctona, storica spina dorsale dell’economia cittadina che all’inizio degli anni Novanta godeva di ottima salute, è stato (quasi) spazzata via.
«La politica non ha dato forza ai salernitani. Innanzitutto non avrebbe dovuto favorire la grande distribuzione ed il suo moltiplicarsi sul tessuto urbano. Ma poi credo anche che l’ abbandono totale di ogni dimensione “produttiva” -si pensi a cosa oggi è l’ attuale zona industriale- a favore esclusivo di una “Salerno turistica” mai effettivamente attestatasi su numeri importanti, abbia sicuramente minato tutto il tessuto economico della città, colpendo duramente uno storico circuito commerciale, vissuto per decenni all’ ombra della forte caratterizzazione industriale della Salerno che fu».
Quanto ha influito tutto questo sulla vita dei e nei quartieri della città?
«La “morte” del commercio storico si accompagna, purtroppo, alla desertificazione dei nostri quartieri. Ogni volta che un bar o una cremeria chiude i battenti in uno dei nostri rioni, evidentemente viene colpita duramente anche la socialità di quei rioni».
La socialità è messa a dura a prova anche dall’avanzata delle nuove tecnologie.
«Sicuramente le relazioni umane sono oggi connotate da una marcata virtualità che per noi, ragazzi negli anni Novanta, era del tutto sconosciuta. Vivevamo nella società del benessere ma eravamo anche, e ancora, la gioventù delle appartenenze ideali agganciate a solidi radici culturali, storiche e politiche che metteva al centro l’incontro con l’altro, lo stare insieme come dimensione naturale dell’esistenza. La società di internet e delle piattaforme social ha reso un po’ tutto liquido, per dirla con Bauman. Le cause vanno rintracciate anche in una pigrizia di fondo delle giovani generazioni, solleticata non solo dalla tecnologia ma dalla minore presa di certe idealità che col tempo si sono smarrite o comunque sono diventate troppo “temperate”».
Quale il tuo rapporto, da non nativo digitale, con le nuove tecnologie?
«Avverto tutto il “peso” di questo cambiamento oltre a coglierne la leggerezza delle note positive, che naturalmente esistono. La necessità di tecnologia appartiene a ognuno di noi, negli aspetti della vita privata, familiare e professionale. Purtroppo questa necessità di tecnologia produce anche meccanismi di controllo sociale e psicologico difficili da gestire. Questo controllare e controllarsi molto spesso si configura come un prurito della società rispetto a quelle che invece dovrebbero essere le esigenze reali: personali e di comunità. Ricordo con piacere gli anni dell’infanzia e dell’adolescenza vissuti per strada, con maggiore libertà e soprattutto tranquillità. Quella nostra tranquillità non la vive la generazione di oggi, nemmeno come dimensione. E’ qualcosa da conquistare».
I ‘social’ hanno modificato il modo di fare politica: cresce la presenza ‘online’, diminuisce quella nella società tra la gente.
«L’impegno per e tra la gente, in politica, è ciò che conta realmente e va recuperato. I movimenti giovanili dei partiti politici venivano vissuti esattamente come possibilità reale di questo impegno, da destra a sinistra. Oggi, troppo spesso, si preferisce “fare politica” sulle piattaforme social, magari anche con una certa aggressività e vomitandosi addosso di tutto. La politica si fa sul territorio».
E’ possibile invertire questa tendenza?
«Non bisogna puntare il dito contro i giovani, irrigidendosi e accusandoli di sbagliare: le nuove forme di comunicazione e di relazione politica appartengono alla realtà della loro vita. Allo stesso tempo, però, è necessario “accompagnarli” a ritrovare le forme dell’impegno comune, non solo possibile ma necessario, affinché comprendano l’importanza dello stare insieme, con gli altri, fianco a fianco, a risolvere i problemi».
Hai vissuto l’adolescenza negli anni Novanta: cosa ha influito di più nella tua formazione giovanile ?
«L’impegno sociale in parrocchia è stato per me più formativo della militanza politica. La parrocchia, gli anni della “militanza francescana” e, in generale, la mia formazione cattolica, mi hanno dato un valore che è centrale, ancora oggi, nella mia personale idea di impegno e di vita sociale: lo spirito di servizio. Si fa tutto -e sempre- per servire e mai per essere serviti».
Che ruolo invece ha avuto il liceo?
«Ho frequentato il liceo scientifico Giovanni da Procida. Sono stati anni fondamentali per le preziose amicizie, le conoscenze didattiche acquisite e anche perché, a latere della formazione scolastica, mi hanno dato la possibilità di vivere una socialità autentica che, poi, è quella che ti introduce al vero impegno politico. In quegli anni ho partecipato alle elezioni d’istituto, da posizioni di destra. Ricordo in particolare che con Lorenzo Forte, studente e mio amico con idee di sinistra, il dibattito era costante e acceso, come però anche la collaborazione. La prima attività politica politica pubblica l’abbiamo fatta insieme: una raccolta di firme, casa per casa, perché al rione Calenda, dove abitavo con la mia famiglia, una frana aveva cancellato mezza strada e il Comune temporeggiava senza fare nulla».
I tuoi posti del cuore in quegli anni.
«La pizzeria ‘Scacciapensieri’, alla fine di via Manganario, con tavoli e panche rigorosamente in legno tutte “intarsiate” dalle dediche dei vari avventori. La pizzeria “Stadio”, a via Cacciatori dell’ Irno, con quel suo mitico proprietario-pizzaiolo: un signore alto, con folti baffi bianchi e l’immancabile cappello da chef. Amavo andarci, solitamente il sabato sera, con alcuni miei compagni di classe. Sono stati veri e proprio luoghi dell’anima».
Da giovane appassionato di politica con forti idealità, come hai vissuto le inchieste giudiziarie di «Mani Pulite» del 1992?
«Da un lato notavo l’esistenza di un sistema con delle degenerazioni evidenti, dall’altra parte non avevo particolare simpatia nei confronti di chi lanciava le monetine in preda all’onda forcaiola e giustizialista. Vissi quel periodo con una conflittualità interiore».
Come risolvesti quel conflitto?
«Iniziando ad impegnarmi nella dimensione pubblica, nella convinzione -che già coltivavo, seppur diciassettenne- che l’ impegno di un giovane dovesse necessariamente essere argine, con il proprio entusiasmo ideale, tanto al malcostume quanto all’ antipolitica».
In che modo è possibile recuperare lo spirito e l’entusiasmo del passato, degli anni Novanta, per costruire la Salerno del futuro?
«Ecco, è questa la domanda che dovremmo porci tutti: come recuperare entusiasmo collettivo intorno ad una nuova idea sul destino della città. Io credo che lo si possa fare innanzitutto costruendo una “idea nuova” di città, che manca del tutto a causa dell’ arenarsi del dibattito collettivo della stessa intorno alla sterile questione “De Luca sì- De Luca no”. Ma per fare questo dobbiamo ragionare insieme ed aumentare gli spazi di confronto; altrimenti questa città muore nell’ assenza di una scelta sulla sua vocazione futura».