Di Olga Chieffi
Dopo la pausa di Ferragosto, domani sera riprenderanno gli appuntamenti musicali in Villa Rufolo, per il gran colpo di coda della LXXII edizione del Ravello Festival. Alle ore 20, riflettori accesi sulla Slovenian Poa Festival Orchestra diretta da George Pehlivanian, il quale torna a dirigere sul palco del Belvedere di Villa Rufolo a distanza di vent’anni quando si presentò al pubblico di Ravello sul podio dell’Orchestra del San Carlo.
La serata verrà inaugurata dalla Italian Serenade composta nel 1887 da Hugo Wolf. La Serenata, originariamente prevista in tre movimenti, successivamente intitolata “Italiana”, sebbene Wolf non abbia specificato la fonte letteraria dietro l’opera, si presume sia stata modellata sul racconto di Joseph von Eichendorff “Aus dem Leben eines Taugenichts”. Il personaggio principale del racconto è un giovane violinista che affascina tutti a prima vista, per poi deludere con la sua ambiguità poco dopo. L’opera presenta un impianto episodico, con passaggi quasi recitativi che forniscono una visione elegante ma ironica dell’idea di amore romantico. I singoli personaggi sono disegnati con cura e le parti narrative della storia si sviluppano attraverso il violino solista. Difficilmente Wolf avrebbe potuto abbozzare un autoritratto musicale più appropriato. Ospite dell’orchestra sarà poi, il giovane violinista napoletano Andrea Cicalese, che ha scelto per l’uditorio internazionale del Ravello Festival il concerto in Sol minore per violino e orchestra n°1 op.26, primo dei tre dedicati al violino, l’unico pezzo veramente popolare di un autore che in seno al movimento romantico tedesco si colloca in una posizione defilata e conservatrice, lontana da ogni radicalismo di stampo moderno. Non per nulla il modello a cui Bruch si rifece è il Concerto per violino in mi minore di Mendelssohn, autore che giustamente concluderà il programma, sia nei riguardi della disposizione formale, sia nella netta preminenza della vena melodica su ogni altro aspetto compositivo. La genesi del Concerto fu lunga e laboriosa e impegnò Bruch per svariati anni, dal 1864 al 1868. In questo arco di tempo il lavoro venne ritoccato almeno una dozzina di volte, giungendo alla sua stesura definitiva solo grazie ai consigli del grande violinista Joseph Joachim. Il titolo di Fantasia che Bruch in un primo momento voleva dare al Concerto tradisce la natura di alcuni aspetti del primo movimento e si riverbera sulla indicazione che l’accompagna, Vorspiel. L’idea tematica esposta senza preamboli dal solista è una trovata musicale fulminante, che prende l’attenzione e si imprime subito nella memoria. La sua estinzione prepara, senza interruzione, il secondo movimento, un Adagio di vibrante densità espressiva, grave e patetico, appena al di qua del limite dell’enfatico: esso offre al solista il destro per far risaltare al massimo grado la più calda e sensuale cantabilità del violino. Questo movimento, cuore dell’opera, è notevolmente ispirato e, a differenza del primo, non cede per tenuta di tensione e intensità, risultando avvincente fino all’ultima misura. Gli fa da contrasto il Finale, un Allegro energico di stampo virtuosistico, non particolarmente originale nei temi, ma assai ben architettato nel gioco delle parti tra violino e orchestra; dove il violino si fa energicamente strada con figurazioni leggere e brillanti, da assoluto protagonista, e l’orchestra lo segue docilmente, quasi con festosa ammirazione. La stretta del Presto, quel finale “con forza”, approda velocemente, alla fine del movimento con la sua irresistibile e virtuosistica conclusione, strappapplausi. Quella del sinfonismo romantico fu una lunga e intensa stagione con tanta Italia ispiratrice, in particolare sulle tracce del gran tour espressa in programma dalla Sinfonia n. 4 in la maggiore, op. 90, Italiana di Felix Mendelssohn-Bartholdy. “Finalmente in Italia!”. È il 10 ottobre 1830 e Felix Mendelssohn, appena ventunenne è arrivato a Venezia, prima tappa di un viaggio in Italia che in nove mesi lo porterà a Firenze, Roma, Napoli, Genova e Milano. È il tipico grand tour degli intellettuali europei: arte, natura, storia, vita dettano all’artista giovane ma già autore di non pochi capolavori un diario ideale di quel soggiorno in una sinfonia iniziata a comporre in Italia e terminata nel 1833. Non resterà però soddisfatto del lavoro, tanto da revisionarlo più volte: edita postuma, l’Italiana sarà impropriamente numerata come Quarta, nonostante preceda di molti anni l’ultima sinfonia di Mendelssohn, la Scozzese da lui edita come Terza, e sia a sua volta preceduta da quella oggi identificata come Quinta. Viceversa a noi oggi l’Italiana appare come il primo grande capolavoro della maturità di Mendelssohn, nonché come il più perfetto e affascinante prodotto sinfonico di quegli anni Trenta dell’Ottocento: bilanciando il controllo stilistico e formale che indica in lui uno dei compositori più classici del suo tempo con l’aspirazione tutta romantica alla descrizione e all’espressione diretta di emozioni e sentimenti, scorre con la felicità e la disinvoltura che è fin troppo facile attribuire alla giovinezza del suo autore, e però con la proprietà di scrittura e la sicurezza costruttiva del compositore già esperto. L’Italia di Mendelssohn, come quella disegnata nell’Aroldo e nel Benvenuto Cellini da Hector Berlioz, nello stesso periodo di stanza a Roma dove i due ragazzi fecero amicizia, è anche la terra in cui fioriscono i limoni cantata da Johann Wolfgang von Goethe, illustre fra i viaggiatori che scoprirono la penisola all’alba dell’età romantica e nume tutelare di Felix adolescente: ma soprattutto è scena vivacissima, popolata da meridionali estroversi, ricca di usi e costumi pittoreschi, fonte di suggestioni favolose. Ecco dunque i quattro movimenti succedersi come altrettanti quadri di genere, pur mantenendo dignità e autonomia musicale assolute: animatissimo e brillante il primo; misteriosamente processionale il secondo, ispirato, sembra, da un corteo funebre visto a Napoli; trasparente come un acquerello il terzo, inframmezzato nel Trio da appelli sospesi di corni e fagotti; ritmicamente esplosivo il Saltarello finale, forse la realizzazione musicale più geniale di quella certa idea di un’Italia latina e tumultuosa che tanto circolò nell’Europa del Romanticismo.