di Luigi Ferrara
La dissoluzione storica del processo di “emancipazione della psichiatria”, avviata con la “rivoluzione basagliana” alla fine degli anni ’60, ha segnato davvero la fine di un’epoca?… Questa domanda, dall’aspetto docile come un pranzo in famiglia, apre su tutta una serie di questioni circa la “cangiante questione psichiatrica italiana”: dopo oltre cinquant’anni da quell’epoca, che Norberto Bobbio definì “l’unica vera riforma di questo paese “, si ripropongono dilemmi e aporie che, nella loro intrinseca complessità, erano già state intuite dallo stesso Basaglia nella forma di “ideologie di ritorno” che, oggi più che mai, necessitano di un approccio critico filosoficamente e antropologicamente fondati, piuttosto che il ricorso a “scorciatoie legislative mediate da un ricorso al politico ” come via maestra. Quei punti critici cinquant’anni dopo Cinquantanni dopo Basaglia solo alcune istanze innovative hanno trovato un parziale radicamento sociale, riemergendo invece i punti critici che, nella loro problematica inattualità, lui stesso intuiva ed esplicitava nella forma del “guardate che i problemi reali sono ben altri”. Questo “ben altro” è fondamentalmente riconducibile alla persistenza di un’anomalia che, come un substrato oleoso, permea l’odierna prassi psichiatrica informata su un modo del pensiero strutturato sul nuovo funzionalismo neurobiologico che, al di là dello scintillio da “neuro-imaging”, rinnova l’anacronismo di una visione neuropatologica del “fatto psichiatrico”. Tale assetto fa da cornice, sin dalle origini, alla psichiatria italiana configurando lo statuto teorico-formativo quale espressione dell’ideologia sottostante la “cittadella accademica”, dalla quale non distano molto anche i “taluni” che richiamandosi alla formuletta del ” bio-psico- sociale”, sembrerebbero allinearsi su posizioni e prassi “diverse”. Dopo cinquant’anni, quasi di nascosto, con un grado di inconsapevolezza miope e colpevole, le perplessità e i timori di allora espressi da Basaglia, si sono nutrite di conferme, sono diventate ingombranti nella loro evidenza empirica, come una sorta di giganteschi paradossi: i suoi punti di disaccordo potevano sembrare anacronistici all’epoca, sono invece diventati attuali con “l’invecchiamento” della 180; costruiti sui rottami della dissoluzione del sistema manicomiale, sembrano, oggi, del tutto nuovi rispetto agli “edifici teorici” nel frattempo costruiti, già pieni di crepe e infiltrazioni; dedotti da un “reperto archeologico”, il filone fenomenologico, considerato un ferro vecchio nell’epoca della dismissione del filosofico, hanno l’ambizione di indurci a spiegare la contemporaneità cui è giunta l’odierna fase restauratrice della “quasi-scienza psichiatrica”. Quei punti di disaccordo, prodotti di quell’onnipresente visione critico-radicale di Basaglia, erano pensati come un punto di attacco senza precedenti alla “modernità psichiatrica”, ci ripropongono definizioni della psichiatria e della malattia mentale così stringenti e nette da ridurre l’insieme degli epigoni contemporanei a un insieme sostanzialmente vuoto. Nessuna “ripresa” di quella rivoluzione, da nessuna parte. Il lungo conflitto teorico-prassico La questione centrale resta quella del “conflitto teorico-prassico” tra paradigma biomedico e “psichiatria emancipatoria”. Tale “conflitto sistemico” ha caratterizzato e infine segnato la fine di un’era, ora si tratta di rispondere “quale essa fosse” . Secondo il florilegio della pubblicistica odierna, accatastatasi dalla fine degli anni ’80, si tratterebbe dell’era della visione riformista e progressista: un’era consegnata alla storia dalla malizia dei politici e degli accademici nostrani, risultando invece quasi del tutto assente, sia la critica ma soprattutto l’autocritica degli epigoni dell’esperienza basagliana. Ma, si potrebbe obiettare: perché tra quei trionfatori non vi fu traccia di autocoscienza? Perché le classi dirigenti nazionali furono colte alla sprovvista dal venir meno del vecchio ordine manicomiale?La “verità “, seguendo il vecchio adagio siciliano, secondo il quale laddove si sospetta si commetterebbe peccato ma si indovina, è che dietro il profilo conflittuale di questa cecità condivisa, entrambi i poli socio-politici procedevano al buio, perché entrambi condividevano lo stesso fondamento e la stessa ontologia: l’ontologia della modernità. In altro termini: ortodossia psichiatrica ed eterodossia basagliana hanno rappresentato soltanto, in una determinata fase storica, i due poli, conservazione/emancipazione, che l’assetto neoliberista alterna sempre, in una continua oscillazione, per adattarsi alle diverse situazioni storiche e socio-politiche. La reciproca miopia teorica è dunque fondata sull’ideologia che il pensiero politico moderno e il suo polo economico, sono disposti ad accettare: un’ontologia basata sulla “inversione” tra relazioni sociali e fatti di natura che ha lo stesso statuto scientifico della scolastica medievale. Banalmente, una peculiarità storica della società moderna viene presentata come “una qualità sovrastorica” dell’uomo: così, la “stigmatizzazione” della malattia mentale come “entità endocranica”, diventa una categoria eterna e mezzo di “identificazione” di certi individui, ovvero considerata come “fatto di natura” da cui partire. L’ortodossia accademica Ebbene, proprio gli “oggetti ” definiti da questa ontologia erano il fondamento comune all’ortodossia accademica e al “campo emancipatorio” : per entrambi, essenzialmente, la “terapia” delle malattie mentali era il principio supremo e indiscutibile.L’istanza emancipatrice, sottesa all’orientamento fenomenologico, non fu mai “antisistema”, benché orientata in senso “anti-istituzionale”; di fatto non abolì, né mai avrebbe potuto abolire le categorie di “malattia mentale” o di “terapia delle stesse”. Si limitò invece ad abolire il “meccanismo regolatore e perpetuatore” del paradigma psichiatrico ottocentesco. E tutto ciò per solide ragioni storiche e culturali. Poiché è stato detto che ci si propone se non quei problemi che si possono risolvere, va quindi tenuto presente che all’indomani della promulgazione della legge 180, soprattutto in Italia non potevano ancora essere risolti i problemi posti dalla contestazione radicale dei costrutti della psichiatria ottocentesca. All’ordine del giorno c’era l’esigenza di un suo tentativo di superamento da effettuarsi con lo sviluppo di quella eredità attraverso l’attuazione della 180, rispetto alla quale lo stesso Basaglia mostrò grande scetticismo risentendo su due delicatissimi aspetti: quello riguardante il “TSO”, e l’istituzione degli “SPDC”, risultando entrambi portatori di una “visione biomedica” che confligge con gli aspetti più innovativi e, appunto, emancipatori della 180. L’alternativa a quest’ultima sarebbe stata, vista l’imminenza del referendum radicale che avrebbe differito sine die una riforma ritenuta necessaria, solo il regresso a forme assistenziali precedenti la riforma stessa. Un’alternativa che i fautori della legge consideravano, a differenza degli apologeti pseudo-riformisti di oggi, giustamente demenziale. Quella dinamica anti-istituzionale Che cosa fu dunque “la legge 180”? Un “fossile”, un regime di transizione tipico di un paese arretrato, e per certi versi ancora immerso in arcaismi, proteso verso la modernità. Nella pur vasta produzione di Basaglia, oltremodo lucida nella “disarticolazione dei costrutti psichiatrici “, realizzata con una radicalità mai più riprodotta, non è da trascurare la “matrice progressista” in cui essa è inserita, cioè a dire che non si trova traccia di un’esplicita critica “al dispositivo biomedico” in quanto tale. In tal senso è sufficiente l’arco storico e osservare la dinamica con cui si sviluppò la sua azione, per cogliere che alcune intuizioni e proposte di Basaglia nel primo periodo della cosiddetta “rivoluzione psichiatrica italiana”, trovarono il proprio punto-limite nel momento in cui la “dinamica anti-istituzionale” fu costretta, per il declinare dello “spirito rivoluzionario” dell’epoca, a trasformarsi in ” riforma delle istituzioni” e quindi a rientrare nell’ordine della cultura dominante. Ciò che ha consentito a taluni, tra i più avvertiti, dopo aver visto e capito cosa fosse accaduto in quegli anni, di affermare che ” la “rivoluzione anti-istituzionale” aveva un “carattere oggettivamente borghese”. Intuizione corretta, al di là delle intenzioni di chi la formulò. La dissoluzione della “rivoluzione basagliana” non fu causata allora dai “nemici del progressismo”( più di quanto non abbiano invece fatto gli svariati fronti cosiddetti “riformisti”), ma dal drammatico fallimento dei suoi stessi presupposti. Questo “fallimento” ha messo oggi gli epigoni di tale esperienza, nella condizione di “risolvere” il problema fondamentale, cioè la ripresa della critica radicale al “paradigma kraepeliniano”, del cui evidente fallimento, pochi ma acuti esponenti della stessa area accademica, ne hanno constatato il “rigor mortis”. D’altra parte, “risolvere” non è sempre un vantaggio, e lo stallo e l’impotenza odierne ne testimoniano l’estrema difficoltà. Tuttavia la ripresa di tale punto critico potrà rinnovarsi solo alla condizione di un robusto innesto di riflessione filosofica tale da evitare una nuova oscillazione storica dal polo pseudo-riformista a quello restauratore.Va inoltre rilevato che le tendenze teoriche più in voga, anche tra i sedicenti apologeti, sono incentrate su un “ever green” della coscienza borghese: il ritorno del primato del politico sull’economia, trascurando il dato che “la politica moderna” è solo un’anonima gestione statale del denaro e che tale politica dà del “tu” a tradizioni politiche che non sanno proprio chi sia.Viene di fatto rimosso che ciò che fa lo Stato tramite la politica, lo deve fare con il mezzo del mercato: tutte le sue decisioni, risoluzioni e leggi, rimangono completamente inefficaci se il loro funzionamento non è stato “guadagnato” regolarmente nel processo di mercato. Tra politica ed economia L’autonomia della politica dall’economia è un’ossimoro. Se il grande “stato razionale”, tutto nelle mani della “politica” (il sogno di Fichte realizzato!), si è rivelato, dal punto di vista economico, una sorta di “fordismo bonsai” i cui simboli, almeno quelli relativi al campo psichiatrico, sono la proliferazione di “strutture assistenziali” a carattere privatistico con una residuale quota di “ambulatori pubblici” dispersi sul territorio; da quello antropologico si è risolto in una miriade di “piccoli narcisismi” autoreferenziali e del tutto conformi alla logica pervasiva del semiasilare. È inevitabile a questo punto immaginare che i sostenitori del primato del politico sull’economia che non abbiano tratto beneficio dalla consapevolezza del fallimento del paradigma biomedico, siano solo “idioti storici”. Ma allora, chi può definirsi “anti-istituzionale” perché antagonista del “paradigma kraepeliniano”?… Soltanto chi rifiuti le basi concettuali e la logica operativa di quel paradigma cui continua a corrispondere una precisa struttura sociale che si riflette nella “baraccopoli odierna quale effettivo status dei servizi”. Ciò che dimostra che si rende sempre più necessaria una “riammissione dell’esercizio filosofico come pratica della trasformazione”.