di Olga Chieffi
L’opera lirica è stata, sin dal suo apparire, il campo di rivelazione dei caratteri salienti di un’epoca e l’occasione per divulgare ideologie consolidate o innovative, ma anche il luogo trionfale della contaminazione, della melodia sublime, del virtuosismo vocale e del folklore collettivo. Divismo e passione, pettegolezzo e complessità dell’allestimento, partitura e loggione vi si miscelano in un coacervo affascinante, quanto esplosivo, purchè si rispettino la musica e i dettami del compositore, poiché l’artista, sia esso musicista, scrittore, pittore, scultore o attore, dovrà sottomettersi unicamente all’Arte, con coerenza ed umiltà, nel momento in cui va a realizzare un’opera e a proporla in pubblico. Mercoledì sera, è andata in scena la prima del Rigoletto di Giuseppe Verdi, ancora una volta all’aperto, nell’arena lirica del Teatro Ghirelli. Un’opera difficile da dirigere, con orchestra, coro, banda di palcoscenico, che ha visto, ancora una volta, Daniel Oren sul podio, fare i salti mortali per dare corpo a quella rappresentazione che è sempre assunta dentro la sua musica. Con il “Prologo”, spoglio e madido di tensione, di gesti, costruito sugli squilli della maledizione, le sensazioni nell’oblio per le voci nel vento, l’ambiguità degli accordi vuoti prima del temporale, un ricordo pastorale, suono di strumenti antichi dentro l’osteria, elemento astratto, preso per la sua sinistra stranezza, la timbrica raffinatissima (il duetto spettrale e languido Rigoletto-Sparafucile), un pensiero mahleriano sulla chiusa di “Caro nome”, difficoltà che nel contesto del Ghirelli si sono, purtroppo, fatte sentire. Alle difficoltà musicali si sono aggiunte quelle registiche di Stefano Maestrini, che non ha fatto ballare, speriamo per assoluta soluzione artistica, le danze più raffinate che incarnano la galanteria di facciata del cortigiano (Minuetto e Perigordino, ambedue francesi, quasi una indicazione nascosta circa la vera identità del soggetto), lasciando il palcoscenico pieno di gente, nel salone dei Giganti del palazzo di Matova, praticamente “Freddo ed immobile/ Come una statua/Fiato non restagli /Da respirar”(ma questa è tutt’altra opera). Ad alzare la tensione e ad introdurre la vera protagonista dell’opera “La Maledizione”, ci pensa il conte di Monterone, un ottimo Italo Proferisce e sua figlia, interpretata da un’intensa Fortuna Capasso, che si rivelerà il “doppio” di Gilda, la quale dopo l’offerta da parte dei cortigiani al Duca, apparirà in scena con la veste lorda del sangue virginale, intuizione registica passata e didascalica. Se dovessimo individuare un’immagine scenica, per Gilda, invece, questa sarebbe la porta. La porta che congiunge e separa, limite visibile fra esterno e interno, emblema per eccellenza dello stesso luogo scenico, del vedere e non vedere. La porta, dunque, non vale a segregare Gilda dal mondo. Dietro la porta Gilda viene posseduta dal Duca. La porta, infine, sospenderà per un attimo – un’eternità – Gilda e i suoi assassini: un sottile diaframma impedisce che l’esterno si precipiti all’interno, e che una lama penetri la carne. La totale segregazione dal mondo predispone Gilda a darsi interamente al primo uomo che incontra. I mutamenti d’animo sono tutti un po’ bruschi in quest’opera, perché sembrano scoprire emozioni, certezze, paure covate in precedenza. Bene Franco Vassallo che produce il gelo istantaneo nell’udire la maledizione, come Gilda, cedere e scivolare nelle mani del seduttore per un’oscura profonda affinità propria alle vittime. La purezza si rovescia e la sua immediata adesione al sacrificio diviene, per così dire la massima trasgressione all’autorità paterna. Non sa della madre, del padre, la famiglia. L’unico nome di cui viene a conoscenza – dall’amante – ed è una menzogna. I cantanti si sono calati nell’allestimento con molta partecipazione, e fra loro ha spiccato Franco Vasallo nel ruolo del titolo che, nonostante qualche defaillance d’intonazione, del resto come tutti, dai cantanti all’orchestra, con l’intelligenza e la sensibilità dell’interprete navigato ha compensato ampiamente, rivelando un fraseggio sempre appropriato, soprattutto nei momenti cantabili. Decisa e cupa la frase “Se il Duca vostro d’appressarsi osasse, ch’ei non entri, gli dite! E ch’io ci sono”. Ci attendavamo un qualcosa in più dal Duca di Mantova, Valentyn Dytiuk, autore di una buona prova vocale, ma non interpretativa. Il suo duca non è libertino a tutto tondo: ne è simbolo la sincera trepidazione amorosa che traspare da una semplice frase come Sua figlia!, rinforzata dalla magnifica linea di Parmi veder le lagrime, e che porta alla cabaletta “Possente amor” in questo punto, infatti, il duca cambia definitivamente, si spoglia e va a prendere la sua preda. Ma la scena della taverna che Maestrini ha voluto esplicita e triviale con la richiesta di Maddalena, ha tozzato in primis con il volto dolce da bravo ragazzo di Valentyn, con la sua gestualità, col suo modo di stare in palcoscenico, annullando completamente l’idea registica. Hasmik Torosyan ha timbro è fresco e luminoso, facendosi apprezzare soprattutto per la sicurezza dell’emissione, come testimoniato dal finale di Caro nome tenuto morbido tradita un po’ dal trillo a spegnersi a scena aperta, bene anche il finale dell’opera, per la morbidezza dei suoni e il legato. Ci sono i gorghi neri del Mincio nello Sparafucile di Carlo Striuli, non adeguatamente differenziato nel fraseggio dal duetto del primo atto, alla concitazione dell’assassinio nel terzo. Sufficiente la Maddalena di Martina Belli, disinvolta in scena, ma con alcuni problemi di intubazione della voce nel registro medio. Nel folto numero dei personaggi di fianco, si sono distinti Angelo Nardinocchi nei panni di Marullo, Matteo Borsa (Enzo Peroni), la Contessa di Ceprano (Miriam Artiaco), il Conte di Ceprano (Maurizio Bove) e Giovanna (Victoria Shereshevskaya). Un po’ di mordente, quanto ad accento orchestrale, è sembrato mancare in passi topici come “Cortigiani vil razza dannata” o “Sì, vendetta”, riscattati però da un finale lirico nel ricamo di clarinetto e archi. Buona la prova del Coro preparato da Armando Tasso. Si replica stasera con Mario Cassi nei panni del buffone gobbo.