E’ un buffone giustiziere quello schizzato dalla splendida voce di Juan Jésus Rodriguez che è il perfetto baritono nobile. Regia classicissima quella di Massimo Gasparon con idee affatto originali. Con il cast stravolto, l’ intera esecuzione dell’opera verdiana è ricaduta per intero sulle spalle di Daniel Oren, il quale, con la sua infinita esperienza, unitamente a quella degli strumentisti in buca, è riuscito a far scomparire ogni ombra dal palcoscenico
di Olga Chieffi
Attesissima la prima del Rigoletto, in un teatro Verdi vivo e colmo in ogni ordine di posti, impreziosito da una prova generale interamente dedicata agli studenti dei licei cittadini, ha celebrato, alla presenza del primo cittadino Enzo Napoli, il centocinquantenario del massimo, con lo stesso titolo con il quale fu inaugurato, pur subendo la maledizione, assurda, di questa guerra tra Russia e Ucraina che si sta disputando anche in quel mondo “altro” che sono le tavole del palcoscenico. Fuori Roman Burdenko, il ruolo del titolo è stato affidato al baritono, Juan Jesús Rodríguez, il quale ha rivelato una voce decisamente virile e importante, estesa e sempre sicura, con supportata da buon gusto nel fraseggio, nelle dinamiche e nei colori. E’ un Rigoletto quello di Rodriguez, fisicamente atletico senza cappello con sonaglini, ma con la marotte agitata puntualmente in mano a mo’ di mazzetta, in volto ai cortigiani, dominatore della scena, ha recitato il complesso ruolo del buffone puntando sul lato da giustiziere, quello cattivo, di Rigoletto, eccellendo nel pronunziare “Egli è Delitto, Punizion son io” e quando conclude dinanzi a quello che crede il cadavere del Duca in un’esplosione di momentaneo orgoglio “Or mi guarda, o mondo! Quest’è un buffone, ed un potente è questo! Ei sta sotto i miei piedi!”, che rappresenta la revanche nei confronti del potere istituzionale, ma non ha convinto del tutto nella parte del padre tenero, un cambiamento di registro che, al di là di una scelta non effettistica e di tradizione, non è apparsa pregnante nell’offrire la vivida, profondità emotiva del vecchio padre deforme, su cui puntava, invece, proprio il regista. Daniel Oren ha dovuto dar coraggio anche ad una Gilda al debutto, Caterina Sala, dopo la defezione di Rosa Feola. Voce limpida e chiara, dinamica sottile, ancora da raffinare per ruoli importanti come questi, è stata vinta dall’emozione nelle celebri variazioni del “Caro nome”, ma lo sguardo incrociato di Oren, tra il palcoscenico e il primo flauto di Antonio Senatore, è riuscito nel miracolo di terminare il numero senza ulteriori patemi. Generoso il soprano nella scena del secondo atto, in cui si è finalmente sentito a proprio agio, convincendo il pubblico in “Tutte le feste al tempio” e nel luminoso “Si vendetta”, prontamente bissato a sipario chiuso. Conosciamo, oramai, il giovane tenore ucraino Valentin Dytiuk , il quale è subito apparso espressivo nel suo duetto con Gilda, “É il sol dell’anima”, che si è rivelato un pezzo tecnicamente ben cantato, lo stesso si può dire della sua aria del secondo atto “Ella mi fu rapita” e cabaletta, tecnicamente corrette ma senza correre in grandi rischi vocali. Tutto è cambiato nel terzo atto, dove il tenore ha offerto un’ ottima interpretazione della famosa “La donna é mobile” e ha iniziato a usare raffinati diminuendo e mezze voci nel quartetto “Bella figlia dell’amore”, diventando incredibilmente espressivo, con attacchi precisi e netti, senza uso di aiuti, in portamenti o appoggiature, anche se Valentin, con il suo volto dolce, non riesce a suscitare la benchè minima misura di antipatia, neanche attraverso i costumi volgari e triviali del suo personaggio. Il basso Carlo Striuli ha interpretato il ruolo dell’assassino Sparafucile con il caratteristico timbro suo metallico e scuro, con un Fa basso finale nel suo duetto con Rigoletto, “Signor…”, senza corpo, così come il sol bemolle basso in “Buona notte” nel terzo atto. Aristocratico e ben timbrato il Monterone di Maurizio Bove, al quale si aggiunge la Maddalena di Maria Barakova che frascheggia in taberna e la dignitosa Giovanna di Victoria Shereshevskaya. Non è stato facile anche da parte del coro e degli altri cantanti Angelo Nardinocchi nei panni di Marullo, Enzo Peroni in quelli di Matteo Borsa, Miriam Artiaco, voce della la contessa di Ceprano e Luigi Cirillo del conte, trasformare la galanteria innamorata in foga erotica, versare il vetriolo sullo scintillio dell’oro, tenendo tutto limpido e terso , come in un disegno cristallino inciso a punta secca. Su tutti l’ha vinta l’orchestra, unitamente alla banda di palcoscenico, diretta da un attentissimo e carismatico Daniel Oren il quale, come d’abitudine, ha scelto con cura tempi, dinamiche, spessori e articolazioni dei diversi piani sonori; colori che, in particolare nel I atto, gli impasti strumentali valorizzano, tendendo l’arco drammaturgico e narrativo, con la sua pulsante, morbida, chiaroscurale direzione, che ha sovrastato, però in diversi punti il coro, preparato da Tiziana Carlini, purtroppo in scena ancora con mascherina e posto in una posizione non felice in palcoscenico specialmente nel ratto di Gilda. Sopra le righe la ricreazione della notte di tregenda su cui hanno scintillato come lampi i disegni dei flauti e dell’ottavino, stavolta di Vincenzo Scannapieco, insieme a tutti i legni, sul coro maschile in funzione connotativa, seguendo il rullo dalla gran cassa interna che accompagna le varie fasi d’intensità del fenomeno, in cui si incastra il più celebre dei quartetti, “Bella Figlia dell’amore”. La regia di Massimo Gasparon, supportata dalle scene di Alfredo Troisi, non ha osato nulla, a partire da un espediente trito e ritrito per l’ ouverture, caro a Bruson, ovvero Rigoletto, che cupo, dolente, stanco, si veste da buffone: per vivere, cede la propria umanità così come ciascuno alla corte del Duca. Qualche strambata non è mancata con un Gualtier Maldè “studente e povero” vestito di tutto punto, con medaglione d’oro al collo, un palcoscenico ingombro dalle torrette per la casa di Rigoletto e la locanda di Sparafucile, riciclate dalle scene del Rigoletto estivo e non adatte al palcoscenico piccolo del nostro massimo, che ci ha costretto ad immaginare un po’ tutto dell’incontro con il mercenario, il vicolo e il mugghiante Mincio, svoltosi praticamente in proscenio. Applausi per tutti e appuntamento con l’opera al 27 maggio, con la magia della Cenerentola rossiniana, che ritroverà i suoi luoghi, le sue origini e la sua infinita eredità.