Ieri nella sala Scarlatti del conservatorio San Pietro a Majella di Napoli l’omaggio ad uno dei capiscuola del clarinetto italiano
Di GIOVANNI DE FALCO
Socchiudo gli occhi pensando al mio maestro, mi sollevo con le ali della memoria e lentamente molti ricordi affollano la mia mente. Il primo di tutti risale agli anni precedenti alla mia iscrizione in conservatorio. Era un tardo pomeriggio, uno dei tanti pomeriggi che trascorrevo nel duomo di Acerra. Per quell’occasione, la chiesa era allestita a lutto, c’erano i baldacchini viola e neri, che a quel tempo venivano usati per la celebrazione dei trigesimi. Si trattava di una messa dedicata alla memoria del padre di Raimondo Sorrentino, primo oboe del teatro San Carlo di Napoli. Avevo 12 anni e studiavo il clarinetto piccolo in mib da 4 anni e, sebbene la circostanza non fosse lieta, quando il parroco annunciò che sarebbero venuti i professori dell’orchestra del teatro San Carlo di Napoli ebbi un sussulto. La messa sarebbe stata interamente cantata, col supporto dei professori del teatro che da sempre avevo sentito nominare da mio padre, appassionato melomane. Subito pensai: “Ci sarà anche il clarinettista? Chi sarà”. Pensai ad alta voce e mi rivolsi ad un violinista: “Eccolo! Sta arrivando!”. Con il clarinetto in mano, un signore di media altezza e coi capelli brizzolati prese posto al suo leggio. Rimasi subito scioccato dalle prime note della sua toccata. Eseguiva la melodia del secondo Valzer di Chopin op.64 per riscaldare lo strumento. Quel suono mi emozionò subito. La chiesa era gremita, oltre ai posti a sedere anche gli spazi senza sedili erano riempiti dalle persone. Molta gente era venuta in onore del maestro Sorrentino. Io trovai un posticino su un tappeto avvolto, in modo da stare vicinissimo all’orchestra. Dirigeva il maestro Gino Campese. I brani solenni intonati dal coro e le melodie eseguite dall’orchestra si elevavano con senso mistico, la professionalità artistica dei professori di uno dei teatri più celebri al mondo riempiva l’intera chiesa di una sonorità spirituale di grande impatto. La musica riempiva l’intera chiesa, che mi sembrava assumere un aspetto nuovo. L’orchestra lentamente arrivò ad un pianissimo fino a ridurre al minimo la sonorità, in quella magia emerse il suono del clarinetto partendo da un impercettibile pianissimo, che si distese in lunghissime curve melodiche accattivanti, poi in successioni di progressioni virtuose, con un perfetto bilancio tra espressione e virtuosismi, che mi rapirono totalmente come ipnotizzato da un suono mai sentito prima. Avrei mai suonato il clarinetto in quel modo? Chiamai papà, il quale da un altro angolo della chiesa aveva ascoltato quel suono e confermato le mie impressioni, ulteriormente fortificate da grande ammirazione per quel clarinettista: “Si chiama Giacomo Miluccio” – mi disse – “Vieni. Andiamo a fargli i complimenti!”. E così, fuori dalla chiesa, mio padre, tenendomi per mano, mi portò da quell’uomo per elogiare quel suono e aggiunse: “Questo è mio figlio, studia il clarinetto e vorrei venisse in conservatorio per studiare con voi, una volta finita la terza media”. Il maestro, intenerito, si rivolse direttamente a me: “Piccolino, come ti chiami?”. “Mi chiamo Giovanni. Dopo aver sentito voi, temo che non potrò mai suonare il clarinetto così bene”. Il Maestro sorrise: “Questa tua risposta è già un segno. Sarai mio allievo e ma fino ad allora… dovrai mangiare interi forni di pane!!” Due anni dopo entrai in conservatorio, ero nella sua classe e avevo ancora la curiosità sul brano che aveva suonato in chiesa, la prima volta che lo avevo ascoltato. Lui, con sicurezza, mi disse: “Io sono come Paganini, non ripeto mai due volte la stessa cosa. Quella sera ho eseguito una cadenza che scrissi esclusivamente per quella occasione”. Così cominciò il mio percorso di studi con lui. Negli anni della mia formazione, ebbi modo di ascoltare molte cadenze, perché il maestro ne creava continuamente, senza mai scriverle. Probabilmente, se avesse deciso di appuntarle e pubblicarle, la letteratura del clarinetto sarebbe ancora più ricca di quanto non lo sia già. Ma non tutto è destinato alla scrittura, esiste un colloquio tra maestro e allievo, che rimane confinato al passaggio da bocca a orecchio, che non è filtrato dalla carta e da quello che è scritto su uno spartito e si ritrova in quel grande territorio che è la trasmissione di un sapere. Quel territorio ha ora sede nella mia memoria.
*Docente di Clarinetto del Conservatorio San Pietro a Majella