Di Antonio Manzo
Dieci anni di processo, un ramo secco della Vaticano Connection. Conferma della condanna in corte di Appello per riciclaggio di monsignor Nunzio Scarano condannato a 5 anni e 3 mesi di reclusione (in primo grado il Tribunale aveva comminato la pena di sette anni) e della commercialista Tiziana Cascone a 2 anni e 4 mesi di reclusione (in primo grado 3 anni). Dieci anni passati, finiti con una richiesta ai giudici di assoluzione della difesa per un reato insussistente non accolta e, poi in Appello, con la conferma della condanna. <Attendiamo le motivazioni della sentenza ma poi ricorreremo in Cassazione. Questo è certo, non solo per procedura processuale ma perché ci sia chi ascolti la verità per un delitto, riciclaggio, che non esiste> dicono a fina udienza gli avvocati difensori Riziero Angeletti del foro di Roma e Carlo Longobardo docente di diritto penale all’università di Napoli. <Novanta giorni e conosceremo i motivi della sentenza> conferma l’avvocato Carmine Giovine difensore di Tiziana Cascone. Non si esclude da parte delle difese un esposto al Consiglio Superiore della Magistratura per la gestione dell’inchiesta condotta dalla procura di Salerno con un presunto accanimento inquisitorio, espresso persino con costose intercettazioni telefoniche poi divulgate nonostante non appartenessero logicamente alla funzione accusatoria. <Riciclaggio>, è questa l’accusa che ha fatto propria anche la Corte di Appello, come già avvenuto in primo grado. Il processo era a carico di monsignor Nunzio Scarano, già responsabile dell’ufficio contabilità dell’Aspa (Amministrazione del patrimonio della sede apostolica) condannato in primo grado per il reato di riciclaggio e per la commercialista Tiziana Cascone.
I giudici di Appello (Presidente Patrizia Cappiello, giudici Clemente e Conforti; il procuratore generale non ha fatto replica) hanno confermato la sentenza per il reato di riciclaggio compiuto con i conti esteri degli imprenditori D’Amico armatori ricchissimi che avrebbero inviato al Fisco dichiarazione dei redditi infedeli, per una presunta evasione fiscale, mai accertata e mai provata. C’è al tribunale di Rima una archiviazione del 2015 a favore dei D’Amico (proprio in relazione ai rapporti con Scarano) per presunta evasione fiscale. Che, quindi, non c’è stata per i giudici romani. Ma per i giudici salernitani i D’Amico, che non hanno mai avuto problemi fiscali con molte ingenti somme versate all’erario, avrebbero frodato il fisco per dare danaro a Scarano. In primo grado i giudici si erano limitati ad affermare la sufficienza della “prova logica” non l’accertamento del reato presupposto. < Riciclaggio, cioè ripulitura di danaro, cioè un reato pregresso. E dov’è?> dice il professore Carlo Longobardo docente di diritto penale all’università di Napoli. Al centro dell’accusa della procura c’era la opaca tracciabilità dei titoli come, ad esempio, quello di 60.000 euro pagati per restaurare il sarcofago di Papa Gregorio VII finanziato con denaro del cavaliere Antonio D’Amico che, secondo l’accusa, gestiva i fondi di beneficenza utilizzando la cassaforte vaticana di Scarano per riciclare fondi di dubbi provenienza dall’estero.
Si trattava, quindi, di un processo che riguardava i flussi di denaro e, soprattutto, la loro provenienza presunta illecita. I difensori sostanzialmente demolirono la sentenza di primo grado, confermata poi Appello, obiettando l’assenza di un reato presupposto relativamente alla configurabilità del delitto accessorio di riciclaggio.
Una circostanza narrata dal giornalista Gianluigi Nuzzi è passata sotto silenzio. È infatti noto, secondo le fonti riportate da Nuzzi, che il Vaticano per disposizione e volontà precisa di Papa Francesco aveva avviato una sorta di revisione della documentazione contenente i presunti reati contestati a Monsignor Scarano. Tant’è che aveva incaricato una nota società di consulenza americana Promontory per la produzione di un report di analisi di tutti i documenti contabili prodotti da Scarano non solo quelli oggetti del processo.
L’analisi della società americana portò ad escludere eventuali reati commessi da Scarano nell’esercizio delle sue funzioni di contabile dell’Aspa.
Questa circostanza tutt’altro che secondaria risulta decisiva per il riconoscimento del lavoro di Scarano ma non è mai entrata tra i giudici salernitani.
A nulla sono valse le parole ragionate dei difensori degli imputati: avvocati Carmine Giovine per Tiziana Cascone; Riziero Angeletti del foro di Roma per Nunzio Sacrano finora, ha contato ben due assoluzioni, lungo l’ultradecennale percorso accusatorio subìto: la prima, del tribunale di Roma per presunta corruzione e la seconda del tribunale di Salerno per presunta corruzione. Ora la condanna in Appello per riciclaggio fondata anche (tesi avvocato Carmine Giovine) non solo sulla mancanza di un controllo da parte della Guardia di Finanza che avrebbe instradato gli stessi giudici in una condanna, già in primo grado, sulla “inaccettabile verifica etica” degli imputati. Scarano ha già scontato una sorta di pena anticipata con un duro regime carcerario e restrizioni alla sua libertà, con successivi arresti domiciliari e il parallelo monitoraggio costante della sua vita perfino con costose intercettazioni telefoniche e ambientali disposte dalla procura con una serie di impianti fatti installare nelle fessure del campanile della cattedrale di Salerno. Ma quelle intercettazioni, alcune delle quali impropriamente diffuse, riguardavano circostanze del tutto estranee al processo ma che servirono a prospettare una capacità delittuosa dell’imputato utilizzando la perniciosa attitudine inquisitoria nazionale delle indagini “buco della serratura”. Circostanze che potrebbero essere prodotte al Csm e al ministro di Giustizia Nordio, perché almeno a Roma, senza trasferirsi a Berlino, ci sia un giudice che, secondo gli avvocati difensori,si è perso nel palazzo di giustizia di Salerno.