La sezione jazz del LXXII Ravello Festival ha celebrato tra luci e ombre il cinquantennale della scomparsa del grande compositore, pianista e band leader, affidando il tributo alla SJO orchestra diretta da Demo Morselli con la partecipazione di Danilo Rea al pianoforte e di Andrea Tofanelli alla tromba. Menzione per il sax alto di Vincenzo Saetta e la tromba parlante di Nicola Coppola
Di Olga Chieffi
Il 24 maggio 1974, le radiotelevisioni di tutto il mondo diffusero la notizia della morte di Duke Ellington. In Italia, ricordo, fu poco più di un flash con qualche annotazione e qualche parola di commento e di rinvio a interventi successivi. Gli studiosi e gli appassionati di jazz rimasero attoniti, sapendo che nella loro musica niente avrebbe potuto essere come prima, gli “altri” capirono solo più tardi che, comunque la si possa pensare su Ellington, il secolo scorso aveva perduto uno dei maggiori compositori. Un festival quale è quello di Ravello, non poteva non onorare una figura della musica tutta, come Edward Kennedy Ellington e la fondazione, dopo aver ospitato in auditorium nel settembre del 2012 la Duke Ellington Orchestra, guidata dalla bacchetta del nipote Paul Mercer, nonché, nel luglio dell’anno precedente la big band di Wynton Marsalis, il quale ha dato alle stampe rendendolo disponibile a tutti, con il suo Lincoln Center, la massima parte delle partiture ellingtoniane, attraverso i buoni offici di Elio Macinante, ha affidato questo importante tributo alla Salerno Jazz Orchestra con la direzione di Demo Morselli, che è tornato dopo aver realizzato lo scorso anno l’omaggio a Frank Sinatra con Vittorio Grigolo. Il conductor ha immediatamente esordito di aver costruito la performance sulle parti originali di Ellington e, sappiamo bene, che il Duca lasciava traccia anche nei soli. Meraviglia, quindi per il basso elettrico imbracciato da un pur eccellente Dario Deidda o in the Mooche, nel momento in cui si è andati ad eseguire il brano del 1928, caratterizzato dal celebre solo di clarinetto, all’epoca Barney Bigard, nel registro grave, cosiddetto “creolo”, vederlo affidato al sassofono soprano di Antonio Giordano, mentre sopra le righe e in perfetto stile ellingtoniano, l’uscita della tromba parlante di Nicola Coppola, sulle tracce di Bubber Miley e Rex Stewart, che è seguita a quella di Andrea Tofanelli, a suo agio negli spazi siderali dei sovracuti che furono di “Cat” Anderson”, trombe che hanno così ricostruito da sole, quelle due metafore, un luogo e un viaggio, in questo caso, il cortile di Harlem, attraverso toni e lamenti della voce umana, e il viaggio degli schiavi africani, evocato dai tamburi dell’eccellente Luca Santaniello, ormai newyorkese in parole e opere. La sezione ottoni di all stars ha fatto risplendere la formazione per l’intera durata del concerto, con tra le trombe, oltre ad Andrea Tofanelli, al quale è stata riservata unicamente l’interpretazione di Rockin’ in Rhythm, mentre si sarebbe comunque continuare con El Gato o uno dei soli più famosi di Cat Anderson, quello di The Opener, Mauro Seraponte e Antonio Scannapieco, perfetti in tutti i volti delle trombe ducali, dagli infiniti stili e voci. Tromboni non da meno, con Raffaele Carotenuto, Enzo De Rosa e Luca Giustozzi, con “uscite” sempre in stile, in cui non hanno mai tradito il suono classico. Massima libertà, invece, è stata concessa alle ance, i sassofoni, proprio dove si “gioca” quell’effetto Ellington, al quale il Duca ha dedicato un pezzo “In a Mellow tone”, nell’amalgama coi clarinetti che erano il secondo strumento di tutti i sax. Sezione questa composta da Giusi Di Giuseppe all’ alto, Antonio Giordano e Giuseppe Plaitano al tenore e Andrea Santaniello al baritono, sui quali ha imperato il sassofono contralto di Vincenzo Saetta al quale è stato assegnata una delle ballads non tanto conosciute di Johnny Hodges, Blood Count, eseguita in modo ineccepibile. Morbidi gli abbellimenti, il suo sound incantevolmente terso, il fraseggio asciutto, nervoso e agilissimo, è stato sfarzosamente evocato dall’ alto del sassofonista beneventano, il quale è riuscito in pieno ad eguagliare la sua ricchezza espressiva, che poco concedeva a certo romanticismo di maniera, nonché la sua tensione emotiva. Anche l’altro alto Giusy Di Giuseppe ha inteso cimentarsi con una delle ballads “hodgesiane”, una delle più note The Star Crossed Lovers, non una delle più difficili quali Prelude to a kiss o Passion flower, in cui le mani di Hodges quasi non si muovono per ottenere quei glissando da paura, su cui l’altista non ha ancora conquistato quella totale legacy che appartiene ad una scuola antica. Danilo Rea, al quale ha ceduto la panchetta un preciso e attento Marco De Gennaro, ha voluto fare Danilo Rea, apparendo in palcoscenico per la sigla di Duke, che forse avrebbe dovuto anche aprire il concerto, Take the “A” train, iniziando il suo abituale viaggio nel suo infinito background musicale, immettendo nei temi ellingtoniani quali in “A sentimental mood” echi partenopei quali “Munasterio ‘e Santa Chiara” o la Danza del Fuoco di de Falla, e ancora nella seconda apparizione è passato da Tea for two, tra echi chopiniani, introduzione di Stormy Weather e il Gershwin di “They can’t Take that away from me”. Amalgama raggiunto dalla formazione, sicuramente nei pezzi d’assieme, quali C Jam blues, Perdido, Satin Doll, al di là di soli fuori stile, trasbordanti in qualche caso verso un moderno hard bop dei due tenor sax. Dario Deidda ha quindi pensato di introdurre Caravan con Caravan Petrol di Renato Carosone, 1937 vs 1958, scelta non originalissima, che si è poi sciolta nel coinvolgente solo di clarinetto di Giuseppe Plaitano. Ancora incursioni nel mondo ellingtoniano con l’Anitra’s Dance dal Peer Gynt di Grieg, e il ritorno di Danilo Rea il quale per il bis ha scelto di eseguire, fuori binario, “Quanno chiove”, di Pino Daniele, prima di ancora chiudere stavolta, con tutti anche con Marco De Gennaro su doppio pianoforte, sulle note della sigla “ducale”. Pubblico del festival a casa in visibilio, e non pochi dubbi dei “puristi” presenti.