Questa sera, alle ore 20, serata inaugurale della LXIV edizione della kermesse con la prima delle prestigiose bacchette ospiti del cartellone, Juraj Valcuha, alla testa dell’Orchestra Giovanile Italiana
Di OLGA CHIEFFI
Questa sera, alle ore 20, sul palcoscenico mozzafiato del Ravello Festival, si accenderanno i riflettori sull’ Orchestra Giovanile Italiana, talentuosi strumentisti in formazione, che saranno diretti dalla esperta bacchetta di Juraj Valcuha. Serata inaugurale significativa che condensa il new deal della rassegna estiva più antica d’Italia, giunta alla sua LXIV edizione, che guarda al passato, con il ritorno delle grandissime bacchette e delle più amate formazioni sinfoniche, e al futuro, affidando appunto, il concerto d’apertura a giovani strumentisti, ma guidati da una mano sapiente, quale è quella di Valcuha. Il programma principierà con un tributo a Richard Wagner, icona del Festival, racchiuso nel Preludio e Morte di Isolde, dal Tristan und Isolde. Il Preludio, (che aldilà di ogni possibile gerarchia è una vetta – se non la vetta – della musica occidentale) non porta in sé solo l’ impronta del genio, ma incarna storicamente un inizio e una fine: l’ armonia non è più quella “inaugurata” da Bach e consolidata da Mozart e Beethoven; è il primo passo verso la musica moderna – l’urlo di vita di un neonato che respira per la prima volta. Sulla melodia densa di sussulti, l’orchestra cresce gradualmente di volume, il flusso delle cadenze incomplete si fa più vertiginoso, sempre di più, siamo smarriti, non c’è un punto di riferimento finchè, dopo l’ennesima vorticosa, sinuosa, dorata arrampicata del leitmotiv su se stesso ci avvolge in uno schianto il climax, la cadenza finale e decisiva, l’esplosione della volontà di potenza, “Nel respiro del mondo…/Nell’alitante Tutto… / naufragare…”; e in questo schianto anche le fibre dell’ascoltatore sembrano disgregarsi e perdersi, tutte le tensioni armoniche esplodono e si risolvono qui, in questo approdo finale dopo il quale la melodia si scioglie sussurrando su di un soffice tappeto armonico. Si continuerà con il poema sinfonico Don Juan composto da Richard Strauss. Fra il 1887 e il 1888, a soli ventiquattro anni, Strauss si affacciava alla finestra del mondo musicale con un poema sinfonico che lasciava presagire un grande maestro del genere: un Don Juan, ispirato al poema omonimo di Nicolaus Lenau (1802-1850). In precedenza Aus Italien aveva messo in mostra tutto il talento di Strauss in fatto di orchestrazione. Il soggetto allude al mito di Don Giovanni, naturalmente: la vicenda del dissoluto punito che nel poema di Lenau non viene spenta dalla furia ultraterrena del Commendatore, ma da un duello combattuto in età avanzata. Strauss, tuttavia, a differenza di quanto accade in molti lavori successivi, non sembra interessato a riprodurre fedelmente i vari passaggi del poema. La sua ispirazione corre libera, abbandonandosi a un affresco sonoro di quel vitalismo inestinguibile, che fa di Don Giovanni uno spirito sgusciante e inafferrabile. Basta il tema iniziale, non immemore degli accompagnamenti ribattuti di Mendelssohn, per pennellare uno slancio incontenibile, che si arresta solo per qualche istante, in uno squarcio lirico affidato al calore melodico degli archi: un attimo di riposo, traboccante di sensualità, subito travolto da una nuova fuga, alla ricerca di chissà quale ulteriore oggetto del desiderio. Lenau non voleva tracciare il ritratto di un libertino perennemente a caccia di femmine; ma l’incarnazione di una tensione romantica, e quindi perennemente frustrata, rivolta alla contemplazione della perfetta femminilità. Strauss sembra tenere conto di questa intenzione poetica. Per arrestarlo ci vuole un vero colpo di teatro, già perfettamente pronto per salire sul palcoscenico: un silenzio interrompe improvvisamente un roboante fortissimo orchestrale; quindi, dopo una lunga pausa, prende forma un accordo in minore che sembra venire da un emisfero altro, opposto a quello ascoltato in precedenza. Seconda parte dedicata alla Suite sinfonica op.33 bis di Sergej Prokofiev “L’amore delle tre melarance”, datata 1925, composta di sei brani, di cui la ritmica Marcia, con la fanfara che accompagna il corteo per far divertire il malato principe Tartaglia, e il brioso Scherzo, in cui il principe è alla smaniosa ricerca delle tre melarance, sono poi diventati celeberrimi. L’orchestrazione, ironica e pungente quanto l’assurda satira, utilizza al massimo le risorse strumentali per disegnare e caratterizzare le sfaccettature di ognuna delle sei sezioni in cui si muovono alcuni dei personaggi fantastici della trama originale: il re di Coppe, il principe Tartaglia, la principessa delle melarance Ninetta, Truffaldino, il mago Clelio, la fata Morgana ma anche i Tragici, i Comici, gli Scervellati, i Lirici e gli Originali. Finale con La Valse di Maurice Ravel con il sussurrare misterioso dell’inizio, col suo fremito sordo che pulsa sotterraneo ma chiaramente avvertibile, che indica che sta per venire alla luce qualcosa di luminoso, ma allo stesso tempo, un senso d’inquietudine, serpeggia l’ombra del dubbio. Ecco che, dopo parecchi tentativi d’emergere dalla bruma, il tema appare: è leggero, frivolo e frizzante e porta con sé un senso di felicità. Con movenze feline e voluttà cromatiche questo tema sale, scoppia e trionfa, poi cade, si dissolve, riappare ancora più esasperato, sale di nuovo in un frenetico crescendo fino al più parossistico fortissimo.