di Alfonso Mauro
È nell’editoria indipendente dato sorprendere rinvenimenti narrativi godibili e capaci porsi fuor d’uscio del monotono, rintronante, commerciale coro di gialli e noir per uso delle cui vicenduole identiche si deforesta — e in ossequio ai tranelli dell’editoria a pagamento facente leva sulla vanità d’un esercito d’inchiostrini. Non è questo il caso. Intanto per l’editore, Scatole Parlanti — giovane, seria, e una missione editoriale che sconfessa l’eap; un coraggio cui è a fortiori necessario centellinare le uscite e preferirne le voci incisive e delicate, schiette e intime, dalle parole tornite ma piane cui farebbe orrore l’occhiolino al mascara del mercanteggiar libresco. E tal vocina è quella di Angela Mogano, editor e correttrice di bozze, deformazione professionale che alligna l’intera opera-prima. Una polla di acque che, diradando al tepore de lu cunto biografico, affiora con naturalezza sogni e patimenti di tre generazioni di donne colte con sensibile premura e senza l’artificio del fingimento. Convince il composto, solido, dipanarsi d’una tramatura fraseologica governata dalla maestria già provata sul banco di chi facendo ricordare si ponga alla scrittura con chiara struttura narrativa — dote non trascurabile, nel naufragio di tanti romanzi nati “per caso”. Nella fluente leggibilità, non v’è interpunzione fuor posto, svista, incertezza, ma irreprensibile nitore formale frutto di serietà autoriale ed editoriale; e, il raccontare è avulso da ingenuità formali e strutturali che rarefanno la lettura a discapito del peso specifico librario. È al contempo vero che la scelta d’un registro ha da esser salda ma uniforme; pur nella sua solidità succitata e succinta, qui si libra medio, e gli riescono stranianti alcuni impennarsi slegati: verbigrazia: acescente, diruto, glabella, mitridatizzazione, galaverna, alcionio, irenico, malmostoso… ben venga costringere qualche lettore alla schiusa di dizionario, ma la disomogeneità del registro tradisce una disavvezzità all’economia della parola complessiva, con inciampi che pongono in disequilibrio il tono, massime in carenza d’altra substantia rerum. Il trasalimento che proveremmo ascoltando una nonna straformarsi in Devoto-Oli, nel mentre che le scorze di mandarino nella vrasera iniziavano a intorpidirci alle sempre uguali parole reminiscenti scorse generazioni. L’avvicendarsi di esse muove dalla “sfacciata azzurrità dell’estate” — mattutina pagina in cui l’io-narrante è dalla madre condotta a conoscere il nonno violento. E subito lo sfocarsi e miscidarsi delle direzioni narrative, con protratte analessi e meno efficaci prolessi, e il sovrapporsi dei piani narrativi tra le memorie di nonna e madre dell’autrice-personaggio e le memorie dell’io narrante. Maria; la dolorosa vicissitudine della nonna Luisa e del nonno Vincenzo femminicida; la sacrificata madre Ermelinda e il padre Antonio reduce; il proprio travaglio fino al matrimonio. L’atto del (far) ricordare, per sé e il sé-espanso del femminino familiare, è inteso qual “scorta per l’inverno più preziosa dell’oro di un caveau”, secondo quell’ “esercizio del pensiero, compito chiamati a svolgere ogni giorno”. La fuggevole fanciullezza povera, i crudeli anni in collegio, la vocazione sartoriale sacrificata alla sfruttatrice industria conserviera, la politica e l’amore — una fabula cui l’intreccio sbrigliato di confessione coram populo legente frammezza più volatili ma caratterizzati quadretti: la malattia, la gita al mare. Qui il coraggio e limite d’affidare a stampa un monologo privato srotolante il gomitolo di “Storia vera” toccante e delicata, ma non esemplare — una come quella della dirimpettaia, di nostra madre, della sua amica… Ciò che manca alla piccola epopea intergenerazionale muliebre è infatti proprio una Poetica fondamentale, un primo motore (fuor dal ricordare in sé) del ricordare per iscritto, nonché una meta che trascenda il compiersi d’una storia infatti abbandonata con nodi narrativi accennati e lasciati senza pervenire al pettine dell’economia dell’opera. Duplice il sentimento: ciò che s’avverte è sì edificante, di sacrosanta denuncia per la condizione femminile e il tipo di modernizzazione conseguito dalla nostra terra, ma resta un appetito cui l’intreccio non ha sostanziato sufficienti calorie pur impastandole dalla materia viva, appassionata della realtà rievocata coralmente e con spinta lirica. “Avevo avvertito il fardello della remissività che, di donna in donna, era passato sulle mie spalle” ma questo fardello non passa appieno sulle nostre. “Temetti il tempo tornasse nell’identica successione di dolori e di lutti, di dinieghi e privazioni”, quelli di un’intera umanità campana, di cui l’autrice desidera farsi corifea. Ma le incursioni sincroniche della Storia — sulle larghe trame della quale sono le storie singole ricamate, e che anzi dovrebbe loro conferir pondo a beneficio d’una lettura che per anima si rechi oltre sé — sono così estemporanee da fallire l’intento di dar contesto, e risultano isolate, quasi aggiunte post hoc. La forma è perfetta; ma è circa il nocciolo del contenuto, e il suo perché, che qualche smaliziato potrebbe a ragione interrogarsi. Piaccia a noi conferire il beneficio del dubbio all’intento di parlar per gli altri e restituire dignità narrativa alla consuetudinarietà d’una triplice vicenda umana — con una lettura consigliata, che ci tuffa a pescar quella perla sempre celatasi nell’ostrica delle nostre memorie familiari; fioca, ma è di luce propria che brilla. Un romanzo sul trascorrere tralasciato e rinvenuto, sulla tenacia che è tale anche quando si flette, sulla composta beltà delle piccole cose.