di Silvia Siniscalchi
«Portami il girasole ch’io lo trapianti / nel mio terreno bruciato dal salino, / e mostri tutto il giorno agli azzurri specchianti / del cielo l’ansietà del suo volto giallino. / Tendono alla chiarità le cose oscure, / si esauriscono i corpi in un fluire / di tinte: queste in musiche. / Svanire è dunque la ventura delle venture. / Portami tu la pianta che conduce / dove sorgono bionde trasparenze / e vapora la vita quale essenza; / portami il girasole impazzito di luce», scrive Eugenio Montale (“Ossi di seppia”). Proprio in questa luce del fiore che segue il sole, come narra Ovidio nel quarto libro delle sue “Metamorfosi”, Annella Prisco segue e rielabora i fili della memoria nel suo libro “Girasoli al vento. Riflessioni e ricordi su mio padre” (Guida Editori, 2018). Ne hanno parlato con l’autrice lo scorso due dicembre, presso l’Istituto d’Istruzione Superiore “Publio Virgilio Marone” di Mercato San Severino, Francesco D’Episcopo, già Ordinario di letteratura italiana della “Federico II” di Napoli, e Andrea Manzi, giornalista e scrittore. L’incontro, moderato dal giornalista Antonio Corbisiero, ha concluso la rassegna culturale “Voci del Mediterraneo”, dedicata all’incontro tra studenti e autori che hanno valorizzato il territorio del Mezzogiorno, come ha spiegato durante il suo saluto iniziale Luigia Trevisone, Dirigente Scolastica dell’Istituto. Tra questi ultimi lo scrittore Michele Prisco, scomparso a Napoli nel 2003 e ingiustamente trascurato dalle attuali logiche commerciali delle case editrici, rappresenta uno degli esempi più importanti e autorevoli; il libro di Annella Prisco, come ha evidenziato il prof. D’Episcopo, oltre a essere un atto d’amore verso il padre, è infatti anche una preziosa occasione per ricordarne la figura di intellettuale e scrittore meridionale di livello europeo, sia per la complessità della struttura narrativa dei suoi romanzi, sia per avere diretto “Le ragioni narrative”, rivista apparsa a Napoli nel 1960 e durata purtroppo un solo anno. In questo progetto editoriale Prisco aveva infatti avviato una proficua collaborazione con gli scrittori della sua epoca – da Domenico Rea a Mario Pomilio, Luigi Compagnone, Luigi Incoronato e Gian Franco Venè – per elaborare una profonda e comune analisi critica della letteratura italiana e straniera del Novecento, dando al contempo visibilità a una nuova generazione di autori meridionali che, al di là delle proprie convinzioni ideologiche e degli orientamenti poetici, condividevano l’obiettivo di superare la crisi di valori del XX secolo ponendo al centro del proprio lavoro l’uomo come essere morale e sociale. Nel racconto di Annella Prisco emergono gli aspetti più privati del suo rapporto con il padre – che li aveva a sua volta preservati conservando in una scatola di cioccolatini di Gay-Odin tutte le affettuose lettere che sua figlia gli aveva dedicato – e della vita dello scrittore, amante della solitudine e della musica classica, sottofondo di un lavoro quotidiano che amava svolgere soprattutto nella sua “Casarella” di Vico Equense, dove scriveva e trascorreva le vacanze, ricevendo di sera le visite di amici e parenti. Attraverso i ricordi e le rielaborazioni di Annella Prisco, la figura del padre si riverbera poi nelle innumerevoli conversazioni da lei avute con le sue amiche, donne dai ruoli e dall’identità confusa, frammenti di luci in un caleidoscopio impazzito di vite fragili e disordinate. L’autrice, avendo il ricordo di suo padre come faro e come guida esistenziale, comprende e riconduce le debolezze di questo universo femmineo nel più vasto ambito del disagio di vivere, ancor più evidente nel disorientamento delle nuove generazioni, di cui i suoi nipoti le offrono un affettuoso spaccato familiare. Il libro di Annella Prisco, tuttavia, non è una biografia: come ha evidenziato Andrea Manzi nel suo intervento, non è un testo agiografico o sentimentale, governato da implicazioni emotive di carattere soggettivo. È invece una raccolta di emozioni e sentimenti raccolti poco dopo la scomparsa del padre che l’autrice ha ripreso e riconsiderato a distanza di anni, con un’operazione molto interessante: il colloquio con il padre, al quale racconta le sue esperienze, lo trasforma nel custode, non più vivo, della memoria, ossia di quella facoltà psichica che consente di decodificare e contestualizzare i frammenti dei ricordi disallineati. Nel compiere questa operazione, Annella Prisco scrive da scrittrice su un maestro della scrittura: non è cioè semplicemente una figlia che scrive di suo padre, ma una scrittrice con una propria struttura poetica, attraverso il cui filtro si ricollega a lui, con l’atteggiamento costruttivo e ricostruttivo di un mondo che il padre non vive più. È il mondo dell’homo videns, del “faber” mediatico, dei social, in cui non contano più i rapporti simmetrici, ma la simultaneità e la possibilità di essere in più luoghi nello stesso tempo. Annella Prisco si chiede come avrebbe potuto suo padre Michele, da uomo e da scrittore, vivere in un contesto così superficiale e freddo; un mondo che per lui, signore nell’animo e amante della vita “coccata”, ossia densa degli affetti familiari e di una interiorità profonda, sarebbe risultato incomprensibile. Una difficoltà tanto più oggettiva perché legata alla circostanza che in questo mondo la figura paterna è amata e respinta: dal punto di vista psicoanalitico la figura paterna che incarna il dovere e la legge non è più accettata dal mondo dei consumi, dove tutto deve essere possibile. Il padre deve allora assumere un diverso ruolo e accompagnare i figli verso la conquista del desiderio, contrapposto al senso di morte; diventa quindi un simbolo, un amico che aiuta i figli a conquistare l’autonomia. Ed è proprio quanto avviene nel libro di Annella Prisco, allieva del maestro-padre di cui rivela l’identità di grande scrittore del Novecento e dal quale, attraverso la scrittura, si separa come scrittrice, conquistando la propria libertà espressiva. Un passaggio non facile, considerando che Prisco è stato un grandissimo autore, critico della società borghese del proprio tempo, precursore dell’avvento di una contemporaneità liquida e priva di identità che assimila i suoi romanzi a quelli della grande letteratura europea del Novecento. Considerazioni che l’autrice, a chiusura della presentazione, ha condiviso pienamente, evidenziando proprio la difficoltà dell’essere diventata scrittrice nel costante confronto con una figura paterna tanto importante quanto ingombrante: si tratta dell’ardua strada dell’emancipazione e della conquista della propria identità personale e professionale, tanto più dura quando a doverla percorrere sono le donne.