Questa sera, alle ore 18, Francesco D’Episcopo inaugurerà la mostra ospite della sede Fai di Salerno, in essere fino al 20 dicembre
Di OLGA CHIEFFI
E’ stata affidata all’artista lucano Pino Latronico, la mostra Fai di dicembre, che vivrà il suo vernissage questa sera, alle ore 18, nella sede salernitana di via Portacatena, impreziosita da una prolusione di Francesco D’Episcopo. Una civetta, un angelo, una sirena e un cavallo, i simboli del mito che Pino ha inteso realizzare con la tecnica della “terracotta ad ingobbio”. Una tecnica, questa, la cui origine si perde nella preistoria, quando l’uomo primitivo fu consapevole che esistevano in natura terre di diverso colore e che poteva usarle per decorare vasi, piatti e sculture, consistente nel ricoprire l’oggetto ancora crudo con strati d’argilla liquida colorata. Le masse figurali non hanno necessità d’essere destrutturate: l’energia è unica e tutta interna e non può giungere alla forzatura, alla deformazione, alla caricatura; questo spazio specifico è la condizione formale di quella stabilità dell’immagine o di quella distribuzione della materia dei pieni e dei vuoti, che è il segno di Latronico. La tecnica diventa emozione “fattiva” che la natura insegna solo se trasferita nella zona “crepuscolare” della memoria, dove il documento si trasforma in sogno. Un sogno della dea, in questo caso Minerva con la sua saggia e veggente civetta e il suo drago, la quale, insieme ai suoi animali, sa di non doverne mai svelare l’enigma. S’avanza il cavallo, che presenta un’ ambivalenza di fondo essere nobile ed intelligente, affascinante e carico di sensualità da una parte e, contemporaneamente, concentrato di forza istintuale, capace di incutere angoscia e turbamenti. Latronico rafforza il ruolo ambivalente del cavallo puro e impuro, solare e funerario, uranico e ctonio. Sorge dalle tenebre come cavallo-serpente, portando con sé la morte delle leggende celtiche, irlandesi e germaniche e termina la sua corsa come cavallo alato, associato al vento. Il cavallo cede il passo alla sirena, che fluttua dissolvendo o facendo esplodere l’umano e che rivolge a noi, i suoi richiami seducenti e allo stesso tempo, respingenti le sue sfide. Una sirena fatta di ghiaccio, poiché è creatura marina, spirito elementare e di fuoco perché vuole amore, perché si presenta come estranea e, dunque, ha parvenza fredda, simbolo della costruzione umana di scienza, portata a questo limite affinché vi esploda il fuoco e mostri il resto dell’Uomo. Su tutti le ali di un angelo o quelle di un’arpia magari Ocipete, colei che vola rapida, con una maschera. Le grandi ali sono simbolo di “smaterializzazione” preludio alla liberazione. Potenza leggera, enigmatica, fatta per farci viaggiare in assenza di gravità fra i piani, fra i mondi, per riallacciarci con la parte più profonda di noi, sgravandoci dalle nostre meschinità, dalle nostre piccolezze, terrene. Tutto si lega e si slega in modo necessario, le sorti, sullo stesso terreno del mondo compiono il loro romanzo, simbolo della passione dei nostri più remoti pensieri.