Rino Mele
“Era il male oscuro di cui le storie e le leggi e le universe discipline delle gran cattedre persistono a dover ignorare la causa, i modi, e lo si porta dentro di sé per tutto il fulgurato scoscendere d’una vita” scrive Gadda ne “La cognizione del dolore”. Ed è la distanza non misurabile che ormai, in giorni così aspri e difficili, abbiamo tra noi e gli altri, tra noi e il nostro passato e – cosa tremenda e mirabile – tra noi e noi stessi. Sono cadute e disperse le linee tracciate, in tanti anni, dal nostro affanno e dagli istanti di gioia, e che credevamo di conservare con attenta cura, ognuno il suo archivio, con bene ordinate le memorie dei nostri rapporti, quel continuo specchiarci negli altri e riceverne conforto, aiuto. Un mare di segni tenuto insieme anche dai sensi di colpa, il ricordo degli innumerevoli errori ma anche della comprensione che abbiamo ricevuto dal generoso dialogo dell’amicizia. Ora, alla tragedia collettiva s’aggiunge una non prevedibile ferita, la notizia appena ricevuta della morte di un amico. Non ci vedevamo da tempo ma questo è naturale nella condizione amicale (arcaica e sempre nuova): che puoi non vederti per anni e, incontrandoti, puoi continuare con gioiosa semplicità l’ultimo discorso lasciato sospeso, il dialogo – dolce nella memoria – che aspettava di essere concluso. Pochi minuti fa, mi è giunta una pressante telefonata da un paesino di neve dell’alto Molise: Olga Chieffi, musicologa e responsabile delle pagine di cultura di “Cronache”, mi ha chiesto una pagina per l’amico Pino Grimaldi morto ieri. Ero stanco, come molti sto trascorrendo l’attesa della fine del Diluvio, quasi un piccolo animale nell’arca, sempre a rileggere, a leggere, a scrivere ma non potevo dire di no al volto ridente e acutissimo che mi è apparso, di Pino, la visione degli affetti che annulla le distanze: aveva sempre quasi una razionale ansia di raggiungere un obiettivo, se fosse stato un arciere avrebbe sofferto di non poter precedere la freccia appena scoccata, per meglio orientarla. Questo suo particolare rapporto col tempo faceva di lui un uomo estremamente moderno, legato alla simultaneità, al confronto veloce, alla ricerca della difficile coincidenza tra critica e testo, tra il progetto e la sua realizzazione. È stato un bravissimo e sorprendente fotografo. Negli anni Settanta riuscì a portare in questa fondamentale arte della comunicazione visiva un vento travolgente e fresco di vitalità e impegno sociale. Furono gli anni in cui iniziò il sodalizio con un giovane scenografo di eccezionali virtù, Gelsominio D’Ambrosio: l’occasione fu la realizzazione, da parte loro, del primo manifesto della Rassegna di Teatro Sperimentale “Nuove Tendenze” a Salerno, curata da Giuseppe Bartolucci e Filiberto Menna. Era il 1973, e da allora la città è rimasta uguale, coi suoi morti e i suoi vivi che ancora dialogano tra loro e rimpiangono di non poter stare insieme, anche di notte, tra la Villa Comunale e il Teatro Verdi a inseguire le favole crudeli del “Carrozzone” di Firenze, l’iperreale forza espressionistica di Vasilicò, la compiutezza del recupero dei linguaggi dell’inconscio in Perlini. Il primo manifesto fu una fotografia di Pino Grimaldi, l’immagine del Teatro Verdi moltiplicata “in abisso”, quasi a significare la violenza salvifica dell’arte e della sua rappresentazione. È stata la fotografia il punto di partenza di Pino Grimaldi, e segna uno dei periodi più alti e felici della sua insonne attività, prima in Studio Segno con Gelsomino D’Ambrosio e poi, autonomamente, in Blur Design. Da quel lontano 1973 possiamo registrare un mezzo secolo di studi sulla comunicazione, del suo impegno, del suo lavoro, nei labirintici aspetti della comunicazione, nella nostra convulsa, esigente, distratta (e deformante) società. Cos’è morire? Non ce lo chiediamo nemmeno più, per non spaventarci. Solo i bambini si fanno ancora questa domanda. Forse trovano una qualche risposta aspra, come un segreto, che comunicano tra di loro giocando a nascondino.