Caverna, utero e storia letteraria
Di Federico Sanguineti
All’inizio del settimo libro della Repubblica, Platone consegna alla storia del pensiero occidentale il celebre mito della caverna. Secondo il filosofo greco, gli esseri umani vivono come prigionieri incatenati in una sorta di antro, dove non possono contemplare cose reali, ma ombre proiettate su una parete: la loro conoscenza resta pertanto imperfetta, riflesso di una verità a loro estranea. Non mancano studi su come il mito si è diffuso, e non soltanto nel pensiero maschile, giacché nessuna e nessuno può ignorare che nella terza e ultima parte di Speculum (1974), intitolata “L’ύστέρα di Platone” (l’utero di Platone), Luce Irigaray sottopone il mito a una critica, individuando in esso l’origine dell’esclusione del femminile dalla filosofia (patriarcale): “Il metodo, la strada, il condotto, il collo, perfino la fessura, tutto sarà certo servito al Padre per rendere sicura la sua autorità”. Al patriarcato si accede insomma attraverso un’origine che si lascia alle spalle, cancellandola, l’origine materiale e materna, in favore di una presunta genesi intellettuale (maschile), mediata dal pensiero. Sarebbe tuttavia un errore (un restare davvero prigionieri nella caverna del patriarcato) pensare che occorra aspettare gli anni Settanta del secolo scorso perché il pensiero di una donna, mettendo in discussione l’idealismo del mito, trovi materialmente voce per parlare di sé. Il mito della caverna è infatti ben presente a Cristina da Pizzano che, nata un secolo dopo Dante (cioè nel 1365), è ricordata nella Storia della letteratura italiana di Tiraboschi (1772-1782), ma cancellata nella storiografia borghese a partire da De Sanctis (1870): fra i requisiti necessari per conseguire oggi la maturità, vi è ancora l’assenza di questa scrittrice dai programmi scolastici. Ma, consultando online la voce “Cristina da Pizzano” nel “Dizionario biografico degli italiani”, si scopre che, fra le innumerevoli opere (ne ha scritte almeno quanto Dante, Boccaccio e Petrarca messi insieme), vi è “un racconto allegorico assai oscuro”, scritto nel 1405, intitolato “Le livre de l’Advision Cristine” (naturalmente in francese, a quei tempi lingua internazionale di cultura). È il racconto di un sogno (già tradotto in inglese, ma al pubblico italiano in effetti sconosciuto), diviso in tre libri, rispettivamente dedicati all’incontro con una dama coronata, con l’Opinione e con la Filosofia. Nel libro centrale, l’autrice si confronta con Opinione, presentata come un’ombra unica (“une seulle ombre”), ma stranamente, alla prova dell’esperienza (“l’experience prouvoit”), composta da più di cento milioni, anzi innumerevoli parti (“plus de cent milions, voire innombrables parties”). Rileggendo a contropelo il mito di Platone, Cristina va oltre il mondo in bianco e nero del patriarcato, scoprendo l’arcobaleno di ombre di ogni colore (qui arti liberali e illegali sono poste sullo stesso piano): bianche, vermiglie, indaco, color fuoco e color acqua ecc. Ogni disciplina non è che ombra variopinta: verde la grammatica, bruna la dialettica, diaspro l’aritmetica, bianca la musica, vermiglia la geometria, azzurra l’astrologia, dorata la teologia e cristallina la filosofia. Insieme ad Adamo, nasce così Opinione, figlia di Ignoranza e Desiderio di Sapere, che a Cristina si presenta in segni veementi (“par vehementes enseignes”): del peccato originale si scopre infatti che responsabile non è affatto Eva, ma l’uomo e la donna insieme. Più forte ancora: umanamente persino Fede, Speranza e Carità non sono che ombre, perché non esisterebbero senza Opinione: “Et te dis plus fort que, si je n’estoie avec Foy, Esperance et Charité, point ne seroit es humains”.