Tema. La prima poetessa. Svolgo.
Di Federico Sanguineti
Si deve a Vittorio Formentin e Antonio Ciaralli la scoperta, di cui si dà notizia su “Lingua e Stile” (LVII, 1, giugno 2022, pp. 3-37), di uno “tra i più antichi documenti delle origini romanze”, precisamente di “un’esile traccia poetica volgare, vergata tra il IX e il X secolo sul vivagno di un codice del secolo VIII”, entro un manoscritto conservato a Würzburg e contenente omelie di Origene: Un frammento di “canzone di donna” in volgare dell’alto medioevo. Per dire la cosa nella maniera più chiara possibile, si tratta del più antico verso della poesia italiana, per l’esattezza di un settenario trocaico ritmico (— x | — x | — x | — x || — x | — x | — ∪ ∪), in cui una ragazza si rivolge serenamente alla madre comunicandole le sue prime avventure erotiche (o, se si preferisce il romantico linguaggio del patriarcato borghese, i primi turbamenti amorosi): “Fui eo | madre in | civi- | tate || vidi | one- | sti io- | vene”. Vale la pena sottolineare che qui non si tratta del solito Dante a cui appare una più o meno stereotipata Beatrice “tanto gentile e tanto onesta” (come nel celeberrimo sonetto), ma viceversa di una Beatrice che invece di andare a spasso per l’aldilà, magari fin oltre le colonne d’Ercole del cielo di Venere o del Primo Mobile (Oltre la spera che più larga gira…), resta coi piedi ancorati per terra, pronta felicemente a scoprire l’esistenza di più di un onesto giovane (con plurale asintagmatico che rinvia, per la felicità di esperti di filologia e linguistica, all’area italoromanza). Non, a dirla tutta, la consueta infermiera salvifica scolasticamente destinata a sottrarre alle infernali tenebre della “selva oscura” l’anima smarrita di qualche sommo Poeta di mezza età, secondo la pedagogia borghese di matrice desanctisiana, cioè una di quelle ragazze che vanno in paradiso, bensì una di quelle che, come spiega Ute Erhardt, vanno dappertutto: Gute Mädchen kommen in den Himmel, böse überall hin (1994). Insomma: “Fui eo, madre in civitate, vidi onesti iovene”. Sorge spontanea a questo punto, più in generale, la seguente domanda: quando le donne hanno cominciato a scrivere poesie? Per quello che è dato sapere, le poetesse sono nate (e non solo nei cosiddetti secoli bui, ma da sempre) prima dei poeti. Come chiarito in data 15 gennaio 2012 dall’archeologo Paolo Matthiae, con un articolo apparso su “Il Sole 24 ore”, il primo poeta “il cui nome sia noto dalla tradizione successiva, ma soprattutto da fonti contemporanee è una donna” (Il primo poeta, una donna). Ne parla in tal senso, nel 2016, a p. 70 di una storia del Vicino Oriente pubblicata a Oxford ma (non ancora) tradotta in italiano, entro un paragrafo intitolato The Kings of Akkad, anche l’assirologo Marc Van de Mieroop (A History of the Anctien Near East ca. 3000-323 BC.). Benché sia ignorata dalla manualistica scolastica, dove al più si fa parola di Saffo, a questa scrittrice (XXIV secolo a. C.) è dedicata, grazie alla globalizzazione in rete, una voce su Wikipedia da cui si apprende che, vissuta poco meno di un paio di millenni prima di colei che renderà celebre l’isola di Lesbo (VI sec. a. C.), fu figlia del re accadico Sargon nonché sacerdotessa. La poesia si chiude con l’invocazione alla dea Inanna (in sumerico; in accadico: Iŝtar) e con il ritorno vittorioso della dea e della sacerdotessa nel santuario di Ur. Finalmente l’inno ebbe un riconoscimento nella letteratura sumerica, “considerata in quell’ambito come uno dei dieci componimenti religiosi più notevoli, l’unico di cui peraltro conosciamo l’autore”, anzi l’autrice: Enḫeduanna.