Tema. Agamennone e Binasco. Svolgo.
Di Federico Sanguineti
Il primo a fissare un canone letterario europeo è Dante, che non esita a considerare Omero “poeta sovrano” (If IV 88), per affiancarlo poi ad Euripide (Pg XXII 106), il più tragico dei tragici, con cui, dal 24 maggio al 12 giugno 2022, grazie ad attrici e attori d’eccezione, si misura Valerio Binasco (Fonderie Limone di Moncalieri). Dalle note del regista, che si riserva il ruolo, a prima vista impossibile, di ποιμήν λαών (“pastore di popoli” in Iliade II 243), cioè di Agamennone, si apprende che Ifigenia e Oreste sono “spettacoli severi, spogli di richiami visivi fini a sé stessi”. Con questo rigore interpretativo, le “due tragedie di Euripide attraverso il mito e la famiglia” si presentano nella loro autenticità al punto che, cancellato ogni deus ex machina, il pubblico si trova di fronte a una rappresentazione che evoca l’onestà intellettuale ed emotiva con cui il compianto Vittorio Sermonti legge alla radio le Metamorfosi di Ovidio o il poema di Dante. Unico in Italia, nasce così un teatro che è teatro tout court, senza la (duplice) retorica dell’accademia e dell’avanguardia. In un caso, Binasco non ignora né la mediazione di Racine (1674) né Iphigenia 2.0 di Charles L. Mee (2007), ma se le scrolla di dosso felicemente, come due scogli lasciati alle spalle. Nell’altro, non è più l’Oreste di monsignor Giovanni Rucellai rappresentato al Collegio Clementino nelle vacanze del Carnovale del 1726, ma neppure un riadattamento, come quello di Marco Bellocchio nel 2013. È teatro invece d’attore puro, dove ogni mitologia (compresa quella che Lukács definisce “ideologia della deideologizzazione”) si rivela e si scioglie materialisticamente e storicamente per quello che è: mera patologia. Sulla scena, composta da una sorta di passerella che crea per il pubblico uno spazio d’azione idealmente infinito, in un grumo metaforico ma al tempo stesso realistico, non ci sono che esseri umani: “Lo so, lo so che non c’è dolore imposto dagli dèi che la natura umana non sia in grado di sopportare, lo so, ma quello che è successo a noi è così atroce che non è umano riuscire a sostenerlo”. Così memorabilmente esordisce Giordana Faggiano nella parte di Elettra. E prosegue: “Devo raccontarvi cose di cui non ho voglia di parlare, ma lo faccio perché sappiate come tutta la storia della nostra famiglia sia da sempre intrisa di violenza e di sangue versato fra parenti: mi basta dirvi che l’uomo conosciuto nel mondo come Atreo, che noi avremmo chiamato nonno, uccise i figli di suo fratello Tieste e gliene fece mangiare le carni ad un banchetto; nostro nonno ebbe due figli, Menelao, che prese in moglie Elena (una donna maledetta dagli dèi) e Agamennone (nostro padre), che sposò Clitemnestra ed ebbero quattro figli: Ifigenia, Crisotemi, Elettra (che sono io) e Oreste (che è lui); e tutti noi quattro nascemmo in una scia di sangue da una madre assassina e sacrilega che, trascinata dalla voglia del suo amante (un miserabile di nome Egisto), uccise nostro padre, facendolo a pezzi senza pietà per vendicare l’assassinio di nostra sorella Ifigenia…”. Nella tragedia greca si fa insomma conscio l’inconscio collettivo e individuale di ognuna e di ognuno. Senza pornografia del dolore, in questo psicodramma si risale infatti alla radice stessa della gerarchia patriarcale che è alla base della cultura dominante occidentale oggi globalizzata con i suoi “valori” ipocritamente familiari, ipocritamente patriottici e ipocritamente militari. Finalmente fuori da ogni melodramma, sembra chiedersi Binasco (e il pubblico con lui), quando ne usciremo?