Tema. “Una cattedra ed è un ciuccio”. Svolgo.
Di Federico Sanguineti
Secondo i gran m[a]e[str]i di Salerno: fortuna letteraria di Salerno con un inedito di Guacci Nobile: è questo il titolo di un contributo apparso in una miscellanea di studi in onore di Paolo Peduto, curato nel 2012 da Rosa Fiorillo e Chiara Lambert (Medioevo letto, rivalutato, scavato, All’insegna del Giglio, Borgo S. Lorenzo [Fi]), dove si dà un minimo abbozzo di ricerca sulla città campana quale “oggetto letterario, vale a dire come luogo di ambientazione narrativa e di memoria storica”, lungo un arco temporale che va dal provenzale Uc de Saint Circ fino ad Alfonso Gatto e oltre. Ma qualcosa resta ancora da aggiungere, se solo si pensa alla tragedia barocca (Il conte Ugolino) dell’urbinate Leon Battista Sempronio (1603-1646), dove protagonista è Angioina “principessa di Salerno”, mentre “principe di Salerno” risulta poi il personaggio-chiave della Cenerentola di Jacopo Ferretti e Gioacchino Rossini (1817). Nell’allestimento del 27 e 29 maggio 2022 per il Teatro Verdi di Salerno, sia pur “in modo velato, allusivo, non naturalistico” e non senza porgere “un tributo alla radice colta napoletana della fiaba risalente al Basile”, il regista Riccardo Canessa rende omaggio alla città del “casino di delizie” di don Ramiro, offrendo per l’occasione una lettura allegorica del dramma giocoso in due atti resa possibile soprattutto dall’ergersi sulla scena di Teresa Iervolino che, in ogni sfaccettatura, esibisce la centralità della protagonista, Angelina, fra l’altro “portatrice del lato tenero, ingenuo, dell’opera”. La Cenerentola, la cui prima rappresentazione al Teatro Valle (25 gennaio 1817) non è cronologicamente distante dalla Rivoluzione francese, rispecchia infatti la conclusione dell’Ancien Régime. Si tratta di un capolavoro dove, come meglio non si potrebbe, l’aristocrazia, cioè l’antico regime, esce realisticamente sconfitto. Per dirla con la filosofia di Alidoro (scena ultima) “l’orgoglio è oppresso”. Ma, incarnando “la bontà in trionfo”, nel ripensare al tempo in cui l’oppressa era lei, la terza figlia (quasi a dire il terzo stato) conclude, ormai emancipata: “Ah fu un lampo, un sogno, un gioco / il mio lungo palpitar”. Emerge proprio qui la complessità (il “nodo avviluppato”) di Cenerentola, espressione di una borghesia, come quella italiana, che, anziché chiudere con la miseria del proprio passato, in fretta e furia la rimuove, condannandosi col perdono a ritrovarsi in casa le meschinità del precedente regime che, uscite dalla finestra, si riaffacciano dalla porta. Certo, non riuscendo a sistemare né la prima né la seconda figlia (né Clorinda né Tisbe), il “duca e barone” don Magnifico ne vien fuori comicamente, sbattuto in cantina con ogni appellativo nobiliare: “grande intendente, / gran presidente, / con gli altri titoli, / con venti etcetera”. Ma il sogno di aristocratico in rovina, l’ambizione di “magnifico papà”, quella appunto di trovare qualcuno che, “cavandosi il cappello”, a lui consegni un “memoriale” da recare a “qualunque delle figlie”, anzi alla “figlia sua reale”, rimane, per quanto in modo implicito, del tutto realizzabile. È ben facile riconoscere nel programma di questo parassita sociale il prototipo della burocrazia italiana, oggi come ieri sistema di corruttori e corrotti basato su raccomandazioni in libero scambio: “questo cerca protezione; / quello ha torto e vuol ragione; / chi vorrebbe un impieguccio; / chi una cattedra ed è un ciuccio…”. E Cenerentola col suo marito salernitano? “Non più mesta”, se non proprio “accanto al fuoco”, resta finalmente relegata al ruolo di regina sì, ma del focolare domestico.