Tema. Clarice Tartufari. Svolgo.
Di Federico Sanguineti
Clarice Gouzy, meglio nota come Clarice Tartufari (nata a Roma nel 1868, morta a Bagnore di Santa Fiora, vicino a Grosseto, nel 1933), di tutte le scrittrici del Novecento è la più ingiustamente dimenticata: orfana, fin da giovanissima, di entrambi i genitori, fu precoce autrice di testi poetici, teatrali e narrativi. Non sembra tuttavia che le abbia giovato il giudizio, da sottoscrivere senza riserve, formulato da Benedetto Croce quando, confrontandola con il premio Nobel Grazia Deledda, le riconobbe “temperamento assai più robusto, sguardo più ampio e un sentire più vigoroso e compatto”. Fra le opere maggiormente riuscite, che la rendono superiore a Matilde Serao, Carolina Invernizio e Ada Negri, basterebbe ricordare, per il teatro, La testa di Medusa (1910), opera di tale eccellenza da superare l’intero teatro di Pirandello, e per la narrativa, al romanzo postumo, L’uomo senza volto, evocante, già dal titolo, il celebre Uno, nessuno e centomila: ma, mentre l’ultimo dei romanzi pirandelliani, pubblicato fra il 1925 e il 1926 su “La fiera letteraria”, è l’odissea di un individuo, Vitalangelo Moscarda, sorpreso dalla moglie che lo vede “insolitamente indugiare davanti allo specchio” (e lo “specchio” è onnipresente nelle ossessioni del protagonista), il personaggio al centro dell’attenzione di Tartufari non ha bisogno di guardarsi allo specchio per vivere la propria odissea: egli è, a causa delle vicende della guerra, un “uomo piegato sopra di sé quasi in due” che, dato per morto e dichiarato “disperso dal giugno 1916”, viene riconosciuto da un connazionale “nell’anticamera del consolato italiano a Varsavia”. Così Rodolfo Ircati, già professore di matematica all’Istituto tecnico Leonardo da Vinci a Roma, recuperata formalmente la propria identità anagrafica, si ritrova spedito nella capitale italiana, dove recupera la sua Penelope, Delia, con tre bambini ormai adolescenti, un maschio e due femmine, abitanti non più in via Salaria, ma in via Savoia: “L’uomo, sempre seduto nella poltrona, aveva sollevato il capo per ascoltare le vicende che avrebbero dovuto essere le vicende proprie ed erano la storia arbitraria di vicende insussistenti. Aggrottava la fronte; non si raccapezzava. Era vivo o era morto? E di quegli altri, moglie, figli, parenti, cosa ne era stato, cosa avevano fatto in tutti quegli anni?” (pp. 23-24). Egli è insomma un Ulisse che, non riuscendo più a riconoscersi, colpito dai traumi della guerra, non riesce a ricostruirsi, al punto che sembra sbarcare dall’arca di Noè: “Quante persone in una persona sola! Professore, marito, tenente combattente, prigioniero, boscaiolo, spaccalegna, operaio, contadino, servente fuochista, e sempre in aria, fra cielo e terra, da sonnambulo che cammina sopra una corda” (p. 45). Le conseguenze sono disastrose: la moglie, cessando di essere “vedova di guerra”, perduto ogni diritto alla pensione, si ritrova in miseria, con un consorte in più sulle spalle, al tempo stesso perduto e ritrovato, la cui personalità resta comunque “sepolta sotto la grave mole degli anni”. Insieme all’impossibilità di un futuro, è il passato a travolgerlo: “La moglie, la vedova bella, di una bellezza morbida, insidiosa, cogli occhi cerchiati di viola, languenti di voluttà. E i figli? Le bambine, il maschietto? Avrebbe potuto passargli accanto senza riconoscerli, né esserne riconosciuto” (pp. 49-50). Oltre che la demitizzazione del mito di Ulisse, è finalmente il rovescio realistico dell’allegorica odissea, dalle 8 del mattino alle due di notte del 16 giugno 1904, di James Joyce.