Tema. La poesia. Svolgimento.
Di Federico Sanguineti
Può accadere che un insegnamento universitario, che richiederebbe, per burocrazia, lezioni frontali, non si chiuda con ‘lectio’ del docente, ma con intervento ‘magistralis’ di qualche discente. Nella fattispecie, si tratta di quanto avvenuto in un corso triennale di Laurea in Lettere, anno accademico 2021/2022, presso UNISA, acronimo che sta per Università degli Studi di Salerno: ateneo che non ha sede, come sembrerebbe dall’etichetta, nel capoluogo di provincia, ma è ospitato (se non tutto, almeno il campus principale) in ‘locus amoenus’ di 13.971 abitanti denominato Fisciano. La disciplina in questione, presso DIPSUM (= Dipartimento di Studi Umanistici), è quella (salvo errore) recante il codice 031260006, traducibile in Filologia italiana. Per la cronaca, la studentessa Rosa Nappi è intervenuta offrendo come “ipotesi di lavoro” (direbbe Contini) l’edizione di un sonetto della napoletana Maria Giuseppa Guacci Nobile (1807-1848), uno dei due recanti il titolo ‘Poesia’, corredando il testo con ‘lectura’ da cui ogni astante, in primis lo scrivente, ha appreso elementi utili alla comprensione della lirica in questione. È emerso così che, nei quattordici versi del componimento, la poetessa fonde echi danteschi e petrarcheschi. Secondo l’ultima volontà di Guacci, il sonetto si legge a p. 139 del secondo volume delle Rime (1847): “Quando il tuo riso, o diva mia beata, / M’innamorò la giovenile idea, / Salve sospiratissima, dicea, / L’anima a dolci sogni abbandonata! // Ma non sì tosto de la mia giornata / Il poco mezzodì si diffondea, / Ch’io te conobbi di mia morte rea / Perchè infiori d’amor la terra ingrata, // E spesso il fallo occulti e la rapina, / Spesso nascondi co’ tuoi dolci effetti / Come il mondo al suo peggio si dichina. // Cosa sei tu dal regno de gli eletti, / Ma qui t’aggiri, o santa pellegrina, / Creando larve ed agitando i petti”. In particolare, paradisiaco è qui l’uso transitivo di ‘innamorare’, che, con arte allusiva, rinvia a terzina pronunciata da Beatrice (Pd XXIII 70-72), dove è pur presente il neologismo ‘infiorare’ (recuperato da Guacci al v. 8), documentando una volta di più come il padre della lingua sia stato accolto, nel corso dei secoli (Ottocento incluso) da un pubblico femminile. Petrarchesco è invece il sintagma “morte rea” (R. V. F. 59, v. 8) del sonetto In qual parte ciel, da cui sono altresì desunti i rimanti ‘idea’ e ‘rea’ (R. V. F. 59, vv. 1 e 8); e petrarchesco è pure il “regno degli eletti” (R. V. F. 26, v. 12). In breve, un ‘odi et amo’ da parte della poetessa napoletana: dantesco è l’amore giovanile per la ‘Poesia’ intesa in sé stessa come vero e proprio paradiso; petrarchesca la pessimistica considerazione, emergente in età matura, per cui “ciò che piace al mondo è breve sogno”. Con Lucien de Rubempré di un romanzo della Comédie humaine pubblicato da Balzac fra il 1837 e il 1843 (e, si capisce, con i Canti di Leopardi), Guacci finalmente condivide le Illusions perdues del suo e (purtroppo) nostro tempo.