Tema. Faccio lezione. Svolgimento.
Di Federico Sanguineti
Faccio lezione di Filologia Dantesca. Comincio dalla parola iniziale del quinto verso del Poema, che di solito si legge in questa forma: “esta selva selvaggia e aspra e forte”. Invito studentesse e studenti a entrare in una biblioteca a tutte e tutti accessibile, cioè invito ad aprire il cellulare e cliccare tre parole su un qualsiasi motore di ricerca: “Dante Dartmouth Project”. Spiego che si tratta di un corpus ideato da Robert Hollander, grazie al quale, in una manciata di secondi, si può sapere quello che è stato scritto nel cosiddetto “secolare commento”, cioè in un’ottantina di commenti, dal Trecento fino ad oggi: da Jacopo Alighieri a Nicola Fosca. Qui ricerchiamo insieme la parola “esta”, per scoprire che è “forma del dimostrativo di stampo arcaico preferita da Dante nella lirica”: è la spiegazione di Francesco Mazzoni (1965-68). A questo punto verifichiamo, scaricando un pdf da Internet contenente le liriche di Dante nell’edizione Barbi del 1921 (commentata da Contini nel 1939), a cui Mazzoni fa riferimento. Poi si va alla ricerca in Internet nel corpus OVI dell’italiano antico, dove le Rime di Dante sono reperibili nell’edizione De Robertis del 2002. Ebbene: nelle liriche di Dante abbiamo due o tre esempi di “esta” contro trentasei esempi di “questa”, ragion per cui, non possedendo gli strumenti informatici che oggi chiunque può avere, Mazzoni purtroppo ricordava male. E che si scopre? Che “esta” è la forma preferita da Guittone, non da Dante, il quale, persino nella canzone Così nel mio parlar voglio esser aspro ‒ “petrosa” appunto accostabile, per ‘asperitas’, all’incipit del Poema ‒, al v. 58, scrive: “questa scherana micidiale e atra” e non: “esta scherana”. Del resto, in Dante (a differenza di Chiaro, che, in Allegrosi cantari, inizia la seconda stanza con il settenario “Esta stagion non vene”), non si troverà, mai e poi mai, un endecasillabo che inizi con “esta” o “esto”: i dimostrativi arcaici sono sempre all’interno del verso. Facile la ricerca, grazie ad Internet: “… esto loco”; “… esto incendio”; “… esti tormenti”; “… esta oltracotanza”; “… este piante”; “… esto legno”; “… esta piova”; “… esto loco”; “… esti luoghi”; “… esto giron”; “… esto fondo”; “… esta parola”; e così via. In più, come si apprende dal “Dartmouth Dante Project”, Giuseppe Campi nel 1888-1893, sulla scia dell’edizione della Crusca del 1595, seguendo il dettato di un codice settentrionale (Estense), leggeva: “questa selva…”. Allora sorge la domanda: perché editori moderni, contraddicendo gli esiti dei loro “stemmata”, si ostinano a leggere “esta selva”? Lo fanno ritenendo che non vi siano dubbi sul fatto che “questa” sia una banalizzazione di “esta”. Eppure, nelle loro pur diverse ricostruzioni (i cosiddetti, in gergo filologico, “stemmata”), la lezione prevalente al verso 5 del primo canto dell’Inferno è comunque “questa” e mai “esta”. Si aggiunga che, in italiano antico, “questa” poteva esser scritto in forma abbreviata, cioè “qesta”, favorendo così, in un copista frettoloso, il passaggio da “questa” a “esta”. E, per quanto riguarda il colorito linguistico, il manoscritto toscano Trivulziano 1080, osannato da Giorgio Inglese, reca appunto “questa”. E “questa” reca pure il non toscano codice Florio, osannato invece da Tonello & Trovato. A conclusione della lezioncina, ecco, in forma di domande, un dubbio per congedo: non sarà il caso di seguire: 1) il colorito linguistico del codice prescelto; 2) l’indicazione offerta dallo “stemma”; 3) l’“usus scribendi” di Dante stesso? Perché finalmente non innalzare a testo la lezione “questa” al verso 5?