Dante letto e copiato bene o male
Di Federico Sanguineti
La prima fortuna dell’immortale Poema di Dante risulta legata al lavoro intellettuale di una categoria sociale che nel corso del XIV secolo subisce un processo di proletarizzazione senza scampo, testimoniato nell’ottava di un anonimo notaio ancora trecentesco, presumibilmente emiliano, che così lamenta il proprio destino umano e professionale: “Debitamente solivam li [sic] notari / actender solamente alle scripture / or li convien procacciar li somari / sì como mixi dentro delle mure / ad casa ad casa, come li fornari / per le taverne e per l’altre bructure; / ma ’1 bon salario li restora un pocho / ché spisso l’à magiore ’1 birro o el cocho”. In altre parole, il salario si abbassa a quello di un birro o di un cuoco, e al notaio occorre accudire ai clienti di porta in porta, proprio come il fornaio di casa in casa, o addirittura gli tocca esercitare il mestiere nelle osterie. Come dovevasi dimostrare, assumendo un ruolo estremamente rivoluzionario, è la borghesia a spogliare di ogni aureola tutte le attività fino ad allora venerabili e devotamente rispettate: “Sie hat den Arzt, den Juristen, den Pfaffen, den Poeten, den Mann der Wissenschaft in ihre bezahlten Lohnarbeiter verwandelt”, scriveranno Marx ed Engels, secoli dopo, nel Manifesto del Partito Comunista (1848); e, da allora in poi, nulla è cambiato: il dottore, il giurista, il prete, il poeta, l’uomo di scienza sono sempre più salariati della borghesia. Salariato è persino il filologo, che fin dai primi versi del Poema si trova di fronte a una “varia lectio”, giacché i codici che tramandano il testo dantesco leggono qui in un modo, lì in un altro. Perduto l’autografo, sono soprattutto i notai ad apprezzare l’opera del Poeta e a ricopiarla: alcuni, per guadagno, o magari soltanto per arrotondare il pane, lo fanno in serie. Spetta al filologo Vincenzo (o Vincenzio) Borghini, attivo a Firenze alla corte cinquecentesca di Cosimo I de’ Medici e di Francesco I, il merito di aver chiarito la ragione di fondo (banalmente economica) che determina, più di ogni altra, l’alterazione testuale. I copisti fiorentini, egli spiega, tengono del Poema “bottega aperta”, trascrivendo “a prezzo” codici “che si chiamano di que’ del cento, et sono ragionevoli ma non però ottimi”; quindi l’autore della Lettera intorno a’ manoscritti antichi fa di un aneddoto di Sacchetti allegoria di un procedimento privo di qualsiasi scrupolo, sia economico che filologico: “non hanno pensato punto alla sadisfatione degl’altri o pur dell’Autore, né avuto paura che gl’intervenga loro come a quel fabbro che, lavorando, cantava i versi di Dante, ma gli scambiava et storpiava fieramente”, suscitando, com’è noto, l’indispettita reazione del Poeta, che ‒ secondo il racconto di Sacchetti ‒ finisce col mandargli all’aria la bottega. Così, per concorde testimonianza di Sacchetti e Borghini, Dante diventa il Cristo della poesia, intento a cacciare i mercanti dal tempio della letteratura. Senonché, nel corso dei secoli, i mercanti hanno continuato imperterriti a fare affari, e a farne le spese è proprio la celebratissima Poesia, che la scuola, l’università, la radio, la televisione, l’editoria, le istituzioni statali, i “dantedì” e le celebrazioni pubbliche in occorrenza dei centenari, non si stancano mai di glorificare, dimenticando tuttavia che, in assenza di autografo, il testo del “sacrato poema” (Pd XXIII 62) o “poema sacro” (Pd XXV 1), trasmutabile per tutte guise essendo scritto in volgare “non stabile e corruttibile” (così chiosa Dante nel Convivio), si è finalmente alterato, come spiega Giovanna Frosini, “fino a divenire inattingibile nella sua verità ultima”.