Mito di Orfeo in Monteverdi e in Dante
Di Federico Sanguineti
Com’è noto, il libretto dell’Orfeo di Claudio Monteverdi, favola pastorale in musica eseguita a Mantova il 24 febbraio 1607, è opera di Alessandro o Sandrino Striggio (o Striggi che dir si voglia), deceduto in quarantena a Venezia nel 1630, quando nella città lagunare ‒ le epidemie sono ricorrenti ‒ morirono di peste all’incirca 150.000 persone, pari al 40% della popolazione. Cancelliere e poeta, nonché omonimo figlio di un compositore famoso per essere autore di cinque libri di madrigali (alcuni dei quali curati da Sandrino stesso), può essere considerato, grazie all’Orfeo, prima produzione musicale che anticipa il moderno melodramma, l’inventore di un genere cosiddetto minore (benché significativo nella cultura nazionale e non): il libretto d’opera. In esso introduce le più diverse forme metriche: endecasillabi, settenari e quinari (più o meno sciolti), ottonari (si pensi all’aria di Orfeo nel secondo atto, Vi ricorda o boschi ombrosi) e terzine dantesche (Possente spirto e formidabil nume è al centro dell’opera, cioè nel terzo atto). Così, proprio all’inizio del terzo atto, dopo che Orfeo invoca la Speranza (Tu mia compagna e duce), non senza paradosso, questo personaggio femminile (oggi interpretato, poniamo, da Maria Luisa Zaltron), non esita a citare quasi alla lettera il più celebre verso del terzo canto dell’Inferno, per non dire uno dei più celebri in assoluto di tutta la Commedia: “Lasciate ogni speranza o voi ch’entrate”. In questo modo Striggio ricorda, ai dantisti che per caso lo avessero dimenticato, che il percorso compiuto da Dante presuppone il viaggio di Orfeo, ma con una differenza, anzi con un capovolgimento: mentre Orfeo, infranto il divieto di Plutone (la legge imposta dal patriarcato), compie l’errore di voltarsi indietro, perdendo la donna amata subito dopo averla ritrovata, Dante invece, liberatosi da costrizioni patriarcali, non perde affatto la donna amata, ma può con lei salire, di piacere in piacere (persino oltre il terzo cielo di san Paolo), fino alle più alte vette del paradiso. Dove e come avviene un tanto drastico rovesciamento? Il “dove” è presto detto: nel paradiso terrestre, luogo in cui Dante, ritrovata Beatrice in veste di “ammiraglio” (Pg XXX 58), anzi addirittura, a scanso di equivoci, “regalmente ne l’atto ancor proterva” (Pg XXX 70), dunque tutt’altra cosa rispetto alla figura femminile idealizzata in manuali scolastici o universitari come innocente fantasma “stilnovista” (o allegorizzata, a seconda dei gusti, come espressione di questa o quella teologia patriarcale), è da lei liberato, una volta per tutte, da ogni struttura mentale maschilista. Dante va oltre l’angoscia di castrazione di fronte alla donna amata: a differenza di Orfeo, angosciato di perdere Euridice (e per questo condannato a perderla), egli si libera, con Beatrice, da quello che Lacan chiamerebbe il nome del Padre. Grazie a una donna, egli ottiene il permesso di soggiorno in una società che, in quanto anti-patriarcale (abolita ogni proprietà privata), rende “l’uom felice” (Pg XXX 75). Per la precisione, queste sono le parole di lei: “e sarai meco sanza fine cive” (Pg XXXII 101). A differenza della testa recisa di Orfeo, che nel quarto libro delle Georgiche (vv. 525-527) invoca tre volte il nome di Euridice, il più anti-patriarcale dei poeti, cioè Dante, si libera non di Beatrice, ma, restando con la testa sul collo, di un tragico padre, Virgilio, invocandone, per comico contrappasso, tre volte il nome: “Ma Virgilio n’avea lasciati scemi / di sé, Virgilio dolcissimo padre, / Virgilio a cui per mia salute die’mi” (Pg XXX 49-51).