Epidemia e storia letteraria
Di Federico Sanguineti
Siegmund Ginzberg, in un volume dal titolo Racconti contagiosi (Feltrinelli 2020), offre un panorama più che esaustivo sul rapporto che intercorre fra ogni forma di epidemia e la letteratura universale, avvertendo argutamente fin dall’inizio ‒ con parafrasi del Manifesto del partito comunista di Marx ed Engels ‒ che tutta la storia finora conosciuta è storia della lotta contro le epidemie. Al lettore non resta quasi nulla da aggiungere; al più qualche postilla, magari per ricordare il caso di poeti del Seicento che traggono dalla peste occasione di lirica ispirazione. È il caso, poniamo, del salernitano Tomaso Gaudiosi, nativo probabilmente di Cava de’ Tirreni e autore di una raccolta intitolata L’Arpa poetica, edita a Napoli da Novello de’ Bonis nel 1671. Com’è noto, benché manchi un adeguato studio monografico su questo poeta (e di lui non esiste a tutt’oggi un’edizione criticamente attendibile e minimamente commentata), sono nella sua lirica presenti accenti di pessimismo che sembrano anticipare le più memorabili pagine leopardiane. A titolo esemplificativo, basti porre a confronto la chiusa di un sonetto (Ritornando alla stanza paterna, 12-14: “O Natura imperfetta, a che produtto / le cose avendo, alfin la speme inganni / e in un subito nulla involvi il tutto?”) con la celebre domanda contenuta in A Silvia (vv. 36-39): “O natura, o natura, / perché non rendi poi / quel che prometti allor? perché di tanto / inganni i figli tuoi?”. Ma è sul terreno della peste che si scatena la vena poetica di Gaudiosi. Meno celebre di quella manzoniana del 1630, per la quale morirono in Italia settentrionale 1.100.000 persone su una popolazione complessiva di circa 4 milioni, la peste del 1656 che colpì il viceregno di Napoli (ma non risparmiò neppure Roma) causò una catastrofe immortalata da Gaudiosi in più di un componimento (e dal pittore napoletano Micco Spadaro in una indimenticabile raffigurazione di piazza Mercatello). Del resto, già in un sonetto intitolato “Custodia degli occhi” (p. 6) è presente il motivo della peste (vv. 9-11): “Quella che sembra a voi beltà celeste, / quasi ricco sepolcro, al seno interno / chiude, miseri voi, lascivia e peste”. A dare tuttavia la misura del disastro sono più che sufficienti i seguenti sonetti: “Il Pozzo, ove stan sepelliti 700 appestati” (p. 39); “Per la peste di Napoli” (p. 62); “Contra gli omicidi in tempo di Peste” (p. 73); “Dopo la peste del 1656” (p. 75); “Alla medesima, in tempo di Peste” (p. 104); “Preghiera a Dio in tempo di Peste” (p. 132), “Di ringraziamento doppo la Peste” (p. 133), “Preghiera a Dio, in tempo di Peste” (p. 135). Un secolo dopo, l’illuminista Antonio Genovesi coglierà l’occasione della peste del 1764 per affrontare in “lettere accademiche” la disputa “se vivano quaggiù in terra più felicemente gl’ignoranti ovvero gli scienziati”. Nulla infatti di più opportuno, in caso di epidemia, che domandarsi, come accade a Genovesi, “se sieno più felici gl’ignoranti che gli scienziati”. Nella lettera undicesima si legge fra l’altro: “Sento del dolore; e ’l dolore è dolore. Ma chi direbbe che queste leggi son feroci? Sono i poeti che diranno la ferocia della peste, della fame, del tremuoto. Ma questa lingua è ignota alla filosofia”. Per concludere, si ceda pertanto la parola a Gaudiosi, con la chiusa del sonetto dal titolo “Che quando l’Uomo comincia a sapere, gli manca la vita” (p. 72) ‒ ignorato da Croce nell’antologia di Lirici marinisti (1910), ma riportato da Getto nella sua silloge (1962) ‒: “O natura infedel come n’inganni! / Più dell’ingegno uman vola leggiera / la ruota irrevocabile degli anni”.