Primo Ottocento: Leopardi e Guacci
Di Federico Sanguineti
Una volta chiarito, grazie a Franco Buffoni (nel volume intitolato Silvia è un anagramma, Marcos y Marcos editore, 2020), il ruolo che l’omosessualità ha nella vita di Leopardi, occorrerebbe indagare la funzione che nell’opera del Recanatese assumono le Bucoliche virgiliane, tanto più che la seconda affronta, com’è noto, il tema dell’amore che il pastore Coridone manifesta per il giovane Alessi. Si può riconoscere, per cominciare, nel dialogo fra l’infelice Melibeo e il cantore di Amarillide, Titiro, la premessa di un capolavoro come l’Infinito. Il “semper” virgiliano del v. 7 (e soprattutto quello del v. 53) precorre, si direbbe, il “Sempre” con cui si apre il celebre idillio; e, ancora, sono anticipati nel poeta latino il colle (“alta sub rupe”) e la siepe (“saepes”), nonché il “confine” in prima stesura (“ab limite”), poi mutato in “orizzonte”, per non parlare della “voce” stessa del “vento” (“levi… susurro”). Anche allitteranti riprese foniche non sembrano casuali: per un verso, “semper”, “saepes”, “saepe”; e, per l’altro, “Sempre”, “siepe”, “sedendo”. Ecco gli esametri virgiliani: “hinc tibi, quae semper [= Sempre], vicino ab limite saepes [= siepe] / Hyblaeis apibus florem depasta salicti / saepe levi somnum suadebit inire susurro; / hinc alta sub rupe [= colle] canet frondator ad auras / nec tamen interea… [= ma]” (vv. 53-57). E chissà poi che un ricordo dell’anafora virgiliana (hinc… hinc…) non risuoni in un verso di A Silvia: “e quinci il mar da lungi e quindi il monte” (v. 25). Non meno ricco di echi è l’incipit del capolavoro di Maria Giuseppa Guacci, una canzone intitolata Le donne italiane, in cui, fra l’altro, è presupposto il settimo capitolo del primo libro delle Confessioni di Agostino, e precisamente quel passo nel quale il santo si interroga con insistenza sul primo peccato (“Quis me conmemorat?… Quis me conmemorat?”). Appena accennato nella prosa latina, il gioco di allitterazioni e assillabazioni (“Quis ME conMEmorat… quod non MEmini de ME”) è così sviluppato in poesia: “Chi ME, cui ne la Mente / arde una fiaMMa di santissiM’ira… Chi ME condanna irrevocabilMEnte?” (vv. 1-2 e 4). A differenza di Agostino (e di Leopardi), le donne italiane, nella poesia di Guacci, non rivolgono preghiere a Dio e neppure si fingono un qualche “naufragar”. Inoltre, non ricercano l’origine teologica del peccato, non “tributano incensi” (v. 12), bensì, in lotta contro il patriarcato borghese, formulano, grazie alla poetessa napoletana, un “libero canto” (v. 15), nel quale denunciano il tetto coniugale come “squallido” (v. 3), recuperando il linguaggio usato da Petrarca contro la corruzione papale nei sonetti del ciclo babilonese, in particolare Fontana di dolore, albergo d’ira. A sancire il legame fra Chiesa, “putta sfacciata” (v. 11 del sonetto petrarchesco) e ipocrisia familiare patriarcale, è il recupero del sintagma “prigion dira” (v. 3): così in effetti, attingendo a R. V. F. CXXXVIII 5, è definito il ménage borghese. Del resto, la “fiamma di santissim’ira” (v. 2) evoca il sonetto Fiamma del ciel (R. V. F. CXXXVI) congiuntamente all’“ira di Dio” del successivo L’avara Babilonia (R. V. F. CXXXVII 2). Datata “Giugno 1834”, la canzone è pubblicata per la prima volta sull’“Iride” (anno secondo, MDCCCXXXV), quindi nella seconda edizione delle Rime (Dalla stamperia dell’Iride, Napoli 1839); e, ancora vivente l’Autrice, nella terza edizione (1847), da cui si citano qui i primi versi “Chi me, cui ne la mente / Arde una fiamma di santissim’ira, / Entro squallido tetto a prigion dira / Chi me condanna irrevocabilmente?”.