Medioevo e storia letteraria
Di Federico Sanguineti
Chi legga i Promessi sposi (1827) scopre che di peste si ammala anche Renzo, il quale, una volta guarito, si trova, per così dire, vaccinato, rientrando fra quanti, muniti di green pass ante litteram, girano “per mezzo al contagio franchi e risoluti”, paragonabili a “cavalieri d’un’epoca del medio evo”. Oggi si dà per ovvia l’esistenza del Medioevo ma, ai tempi di Manzoni, questa categoria storiografica è nata da pochissimo. Consultando il Dizionario Etimologico della Lingua Italiana di Cortelazzo e Zolli si scopre che in Italia la prima attestazione della parola risale al 3 gennaio 1813, quando fa la comparsa su un giornale letterario milanese, intitolato “Il Poligrafo”. Quanto all’aggettivo “medievale” occorre attendere il 1868, vale a dire, per la precisione, le Lezioni di storia di Ranalli (non Renalli come indicato nel DELI): qui, a proposito di “studi delle antichità di mezzo”, si avverte, nella “Lezione Settantesimaquinta”, che sono “dette medievali dai coniatori perpetui di nuove frasi inutili”. Comunque sia, uno dei primi a far riferimento al Medioevo è il diciassettenne Leopardi quando, nella lettera a Cancellieri del 15 luglio 1815, scrive “medio” e “evo” unendo le due parole con un trattino: “medio-evo”. Un anno dopo, nelle Avventure letterarie di un giorno, Borsieri cita “un esemplare della Storia delle repubbliche letterarie del medio evo del sig. Sismondi”, cioè l’Histoire des Républiques Italiennes du Moyen Age (edita fra il 1807 e il 1818). A testimoniare la resistenza a introdurre la parola in lingua italiana sta il fatto che, a partire dal 1817, l’opera di Sismondi è tradotta col titolo di Storia delle Repubbliche Italiane de’ Secoli di Mezzo. In conclusione, il Medioevo è invenzione ideologica, inesistente prima della Rivoluzione francese, ragion per cui Dante, poniamo, non sa di essere medievale: si considera moderno (in rapporto al mondo antico, per esempio a Virgilio). Banalmente il Medioevo è oggetto ora di insegnamento alle scuole elementari; eppure nella monumentale Storia della letteratura italiana (1772-1782) di Tiraboschi la parola non c’è. Diversamente accade con De Sanctis che, giusto un secolo dopo, pensando a Dante, si domanda: “Che cos’è dunque la Commedia?”; e risponde: “È il medio evo realizzato, come arte”. Così per lui il Decameron è “il medio evo non solo negato, ma canzonato”; quindi, con Ariosto “si dissolve il medio evo e si genera il mondo moderno”; ma, grazie a Machiavelli, “crolla in tutte le sue basi”. Ed ecco che, fantasticando la nascita dall’utero medievale, la borghesia elabora la propria vicenda in chiave maschilista, dove le donne (ridotte a regine del focolare domestico) sono oggetto dello sguardo di chi scrive, ma non più autentico soggetto, se non in casi eccezionali e a condizione che, rinunciando a un modo di pensare alternativo, si riducano, secondo la voga del momento, a scimmiottare le forme dominanti. Si spiega pertanto la censura, da parte della storiografia borghese, delle scrittrici ricordate da Tiraboschi: per esempio Cristina da Pizzano (1365-1430), Isotta Nogarola (1418-1466), Laura Cereta (1469-1499), Lucrezia Marinella (1571-1633), fino a Petronilla Paolini Massimi (1663-1726). Ai nostri giorni, dei Canti (1835) di Leopardi si hanno ben quattro edizioni critiche, ma nessuna, né critica né commentata, delle Rime (1832) di Maria Giuseppa Guacci Nobile. Inventata la categoria di Medioevo, le donne che scrivono, ridotte a figure o fenomeno di cronaca o moda, grazie a “femminicidio” culturale, restano fuori dalla storia.
Federico Sanguineti