Insegnare la storia letteraria
Di Federico Sanguineti
Nel De brevitate vitae Seneca lamentava il diffondersi del vuoto studio di cose superflue, più o meno ciò che oggi si chiamerebbe “nozionismo”: “Romanos invasit inane studium supervacua discendi”. E chissà che cosa direbbe oggi il filosofo stoico di fronte all’Istituto Nazionale per la Valutazione del Sistema Educativo di Istruzione e di Formazione, con relative prove INVALSI che coinvolgono più di due milioni di studentesse e studenti, per non parlare di test di accesso universitari, CFU e quant’altro. Sulla scia di Seneca, nella ‘Monarchia’ anche Dante (poeta, ma pure, più che “padre della lingua”, maestro di pedagogia) non esita a sottolineare l’inutilità di dimostrare un teorema di Euclide se già dimostrato dal matematico greco, di indicare la via della felicità se già indicata da Aristotele o di difendere la vecchiaia se già difesa da Cicerone. Che vantaggio si ricaverebbe a rifare il già fatto? Nessuno, dato che una siffatta inutile noia recherebbe solo fastidio: “Nullum quippe, sed fastidium etenim illa superfluitas tediosa prestaret”. Ci si chiede allora se la didattica che si svolge spiegando “ex cathedra” abbia ancora senso. Il copione è fin troppo noto: si replica laicamente, dal lunedì al sabato, in un’aula più o meno affollata o in DAD, quanto accade la domenica in chiesa, con una prof o un prof che si avventurano dal pulpito in una predica dove, se va bene, spiegano un autore (raramente un’autrice, perché i classici, quelli “sacri”, non son scritti da donne), in una sorta di “messa”, cui seguirà l’interrogazione (confessione) dei discenti fedeli che vengono promossi (assoluzione) o rimandati (invito a una penitenza) o addirittura bocciati (condanna all’inferno). Non sarebbe il caso di pensare a un’alternativa? Lo suggerisce, per esempio, Gerald Graff, professore all’università di Chicago e fondatore di “Teachers for a Democratic Culture”, nonché ideatore di una pedagogia consistente, per dirla in una formula, nell’insegnare i conflitti culturali: Teaching the Conflicts è il titolo di un suo libro (che meriterebbe di essere tradotto in italiano). L’idea che si debba insegnare non un “pensiero unico” ma la pluralità delle controversie, come l’autore racconta, è nata per caso, nell’ascoltare la discussione fra colleghi: quando, un giorno, di fronte a un anziano professore che lamentava che una data poesia risultava incomprensibile a ogni discente, una giovane collega si schierò dalla parte delle studentesse e degli studenti, affermando che, proprio per il modo in cui la poesia le era stata presentata a scuola, lei stessa aveva sviluppato un odio per la letteratura, che solo dopo anni è riuscita a superare. Di fronte al professore che replicava difendendo quel testo come un capolavoro della “tradizione occidentale”, la professoressa dichiarò: “Il fatto è, caro mio, che quello che tu pensi sia un’espressione umana universale è semplicemente un’esperienza maschile presentata come se fosse universale”. La conclusione non può che essere sottoscritta: mentre Graff osservava i due colleghi agitarsi, pensò che se studentesse e studenti avessero potuto ascoltarli non mentre parlavano “ex cathedra”, ma lì, quando si animavano fuori scena, si sarebbero finalmente interessati alla letteratura.